sabato 31 maggio 2014

Joe's Farage

U-KEEP it greezy so it’ll go down eezy

 

“Uhh, a coppola quartsa beer ’n
a faggy on the side... What else?”
(I mean.. not that faggy...)
Joe Cricket:
It wuzn’t very ludge
Dere was Justin Uffroom to cram the drums
In de conna ovuh by the dudge
It was a fifty-4
Wid a mashed up door
Anna Cheezy li’l
amp
With a sine on the front sad
“Fan the Champ”
Anna Sekkinhan guitar
It was a Strut-O’Custer wid a wham-me bar


Nigel:
We cood jam in Joe’s Farage
’is momma was screemin’
’is ded was med
We was playin’ de same old song
Indie aftahnoon ’n sometimes we wood
Play it all nite long
It was all we ’noo, ’n easy tew
So we woodn’t git it wrong
Awl we did was bender string like...




Hey!
Down in Joe’s Farage
We didn’t ’ave no dope or Ellis-D
But a coppola quartsa beer
Wood fix it so the intonashin
Wood not offend yer eer
And da same old chords goin’ over ’n over
B-came a symphony
We cood play it agin ’n agin ’n agin
Coz it sounded good to me
WON MO’  TIME!

We cood jam in Joe’s Farage
His mama was screamin’,
“TERN IT DOWIN!”
We was playin’ the same ol’ sung
Indie ’alf-to-noon ’n sometimes we wood
Play it all nite lung
It wez all we ’noo, ’n easy tew
So we woodn’t get it rawn
Ev’n if you played it on a sex-o’phone

We thawt we wuz pretty good
We tawkt about keepin’ the band to gather
’N we figgered that we shood
’Coz about dis time we wez gettin’ d-eye
Fum the gals inda naybahood
They’d all come ovuh ’n denser ’round like...

So we picked out a stew-pid name
’ad sum cards printed up f’r a coppola bux
’N we wez on our way to fame
Got matching soots
’N beetle boots
’N a sine on the back of the kerr
’N we was reddy to work in a gaw-gaw-buh
ONE 2 THREE 4
LASSIE IF YOU GOT S’MORE!

Peeples seemed to like our song
Dey got up ’n danced ’n maid a lotta noise
An’ it wasn't ’fore very long
A guy from a company we can’t name
Said we otta take his pen
’N sine on the line for a reel good time
But he didn’t tell us when
Diese “good times” would be sumfin’
Vat was reelly Appennin

So the band broke up
An’ it looks like
We will never play again...

Joe Cricket:
Gas you only gat one chance in life
To play a song dat goes like...

Mrs. Borg-Dreeny:
Tern it dowin!
Tern it
dowin!
I have chilrum sleeping ’ere... .
Dontcho boys know a knee-nice song?


Joe Cricket:
Well da
yahs was rollin’ by
’eavy meddle ’n glidda rock
’ad caught the poblic-I
Snotty boys with lipstick awn
Was reelly flyin-I
’N den dey got dat disco thang
’N new waive came along
’N all of a sudden I fawt the time
’ad come f’r dat old song
We you-ster play in Joe’s Farage
And if I am not ’rong
You will soon be dancin’ to the...


Mrs. Borg-Dreeny:
The WHITE ZONE is for loading and unloading only.

If you gotta load or unload, go to the WHITE ZONE..

Joe Cricket:
I said the yahs was rollin’ by, yeah
The
yahs was rollin’ by...
Mrs. Borg-Dreeny:
I’m calling the pawliss!
Joe Cricket:
So the
yahs was rollin’ by...
Mrs. Borg-Dreeny:
I did it!
Joe Cricket:
So the
yahs was rollin’ by...
Mrs. Borg-Dreeny:
They’ll be ’ere... shawtly!
Joe Cricket:
By, by, the
yahs was rollin’ by...

Nigel:
This is the PAWLISS...

(blehr-blehr-Blair... blehr-blehr-Blair... 
blehr-blehr-Blair... blehr-blehr-Blair...
blehr-blehr-Blair... blehr-blehr-Blair... )
I like you K-naydians...

Mrs. Borg-Dreeny:
He used to cut me grass, he was a very nice bloke...

giovedì 22 maggio 2014

Chiudete quella porta (Ciao Lalique)

(Ciao Lalique, illustrazione di Stefano Baratti)


Ecco: c’è quella voce non la smette un istante: “Chiudete la porta, Cristo Dio, fate il favore; a che cosa servono le porte, sennò?” Allora io mi sono chiesto se quella è la sua voce. Più avanti, ho cominciato a chiederlo agli altri, a cominciare da Dorando, e su su – si fa per dire – fino a De Topis. I quadri intermedi mi davano l’idea di indifferenza, disinteresse, insensibilità vicina al callo. Sulle prime, risposte non dico certe, ma plausibili, zero via zero.
Poi, così, come dalla notte al giorno, qualcosa li ha spinti a tirare fuori la Giovanna d’Arco che è in loro e mi hanno spiegato la voce di chi è quella. Mi sono inquietato: “Non ci posso credere!” L’ho urlato in gola. Non ci potevo credere? E perché – o come – mai?
De Topis è capace di cose insospettabili, dunque. Lui, così dimestico del suo linguaggio, forte della sua parlantina... chissà come... Un quadernetto tipo da poeta velleitario, aveva. Me lo infila in una cartella come farebbe un carbonaro. Mi fa cenno di aspettare almeno fino alla pausa, e si allontana. Torna sui suoi passi. All’orecchio: “Di notte, ogni tanto, in cucina, tra le puzze dei piatti sporchi”. E si allontana.
Il partito si macera. Parentesi. Si mortifica nell’inesprimibile. Parentesi. Il partito è Caverna. Il partito è in torturata ascesi, sgrana rosari, inciliciato. Le cose, in verità, stanno come segue: al tempo dei tempi, il partito aveva il suo trono sulla montagna. Capite? Un quadernetto di quelli che ci si porta appresso nel tascone interno del cappotto e che ci si ferma a riempire in un bar, per esempio.
A capo.
Nella notte dei tempi Esso produceva agende e vademecum, che riforniva ai. Cassato. di cui riforniva i propri adepti. Costoro riempivano le agende di schizzi surrealistici durante le assemblee, mentre ascoltavano il partito, quando il partito non era taciturno, non era il film muto di adesso, ma aveva una parola sana, robusta e di buona costituzione per tutti, si attivava per prendere le misure agli ignudi e vestirli, pagare da bere agli assetati, stilare la lista della spesa per gli affamati, sollevare i bambini al cielo al proprio passaggio fra le transenne, moltiplicare i grani di latte in polvere nei petti delle donne. Lo sapevo ironico, ma non così pericoloso. A capo. 
Ora il partito non si pronuncia. Perché sospetta di essere impronunciabile. Perché voci in corridoio (in contrasto con la sua voce) danno il partito prossimo alla forbice dell’impronunciabile. Ma c’è ben altro, signori nostri. 
C’è una sovrapproduzione di agende e di vademecum da parte del partito. Le agende in eccedenza vengono – questo va riconosciuto come un merito – riciclate per i bimbi delle elementari che si impratichiscono nella rappresentazione di insiemi; i bimbi stanno imparando a disegnare insiemi di partiti: conoscono l’insieme FLOP, l’insieme FLIP, l’insieme FLAP, l’insieme FLUP (questo, le classi del primo ciclo). Mi ricorda le ingegnose invenzioni del capitano Lemuele Gulliver. Via via, imparano a conoscere l’insieme FLOPULP, FLIPALP, FLAPOLP, FLUPILP, fino agli insiemi più complessi, tra i quali includiamo il FLOPALPFLUPFF e il PFAFFLOPPLULLPPLL (FFFPPP). Di qui – ma nulla di più – l’indicibilità del partito”.
I vademecum erano pieni di errori di stampa. Per lo meno li avevano tolti dalla circolazione e dati da correggere.
Da questo punto di vista, ora sono un bijou. Però sono un disastro di sintassi. 
Be’, non farmele girare, adesso!” mi ha apostrofato De Topis, di ritorno dall’Elba.
Ha gonfiato le gote per mimare acqua in bocca. 
Cara?” gli ho chiesto goffamente con l’acqua in bocca. 
Figurati. Da spellarti fino all’osso”.
Ho girato e rigirato i pollici aspettando qualcosa. Forse che mi infilasse di soppiatto in un cassetto o in una cartella un quadernino riempito durante il soggiorno all’isola. Aumm aumm. 
Io... ho preso una decisione...” faccio. 
Sarebbe?” 
Rispedisco il vademecum, le agende e tutto quanto al mittente. Io non ce la faccio a... Il partito è ormai geroglifico...” 
Tu mi fai girar, tu mi fai girar”, ha canticchiato De Topis, “come fossi una bambola...”
Mi ha buttato un braccio intorno al collo: “Ti ricordi? Ti ricordi?” Aveva gli occhi rossi. Ho spostato la sigaretta. 
Certo”, gli ho risposto. “È per questo che ho preso la decisione di liberarmi del vademecum. È incomprensibile, illeggibile, e, forse, anche irriciclabile”.
Continuavo ad aspettare un segno. Un quadernetto.
De Topis si è alzato in piedi e facendo un giretto per la stanza ha intonato una delle sue prese di posizione in bilico sopra una stanchezza infinita: 
Io ti capisco. Fai. Però sappi che forse stai prendendo un abbaglio enorme. Il fatto è questo, vedi: il partito è così perché si sta rigenerando, capisci? Il partito è l’araba fenice”. Aumm aumm. “Voglio dire che il partito sta tentando di ritrovare la strada dei primordi, è alla ricerca dell’urlo originario e... e... significativo! Per questo siamo disorientati dalla sua vocina momentaneamente anonima, stridula e triviale. Credimi: sotto c’è un ribollir di tini, per così dire, inaudito”. 
Aumm aumm?” ho gridato. 
Ehi, ma che ti gridi... Fuori di sarcasmo: sta attuando sforzi, il partito”. 
Attuando sforzi”, ho ripetuto con voce normalizzata. 
Nel senso di una rifondazione, sulla linea di una rivisitazione e ridefinizione, in vista di...” si è interrotto stanchissimo De Topis e si è appoggiato coi gomiti sul davanzale della finestra che dava sulla strada piena di odori. “In vista di riacquistare la propria configurazione di...” Gli odori dei nostri fratelli, e le loro voci, e i rumori prodotti da ogni oggetto creato dai nostri fratelli “… partito forte, quasi tellurico!”
De Topis è venuto a sedermisi di fronte. Ha detto: “Hai visto quanti valori giù in strada?”
Il partito è innominabile. Vaga apollineo nell’Elicona, contornandosi di belle donne. Il partito è un essere alato e ha perciò diritto alla temporanea follia. Il partito è poesia. Deve solo rispondere al cuore, e a nient’altro. Sgorbi e ghirigori suggeriti dalle anime de li mortacci di Breton prendono due facciate del quadernetto. A capo.
Il partito si inebria di nettare; gliene se rapprende un sacco sulla bocca, e ogni tanto ne perde particelle, che dalle labbra piovono giù giù giù”. Trovato nella buca delle lettere. 

***
De Topis è stato espulso – e privato del “De” – in quanto infame. In realtà soffre di un qualche esaurimento. Sentiva le voci.

Cerco e trovo la compagnia di Dorando, anziano uomo di partito, pensionando.
Ve lo presento.
Saluta, Dorando! 
Buondì, sono Dorando”.
E poi? 
Non sto mai con le mani in mano, trovo sempre qualcosa da fare”.
Da quanto tempo? 
Da quarant’anni”.
E poi? 
Poi vado in pensione”.
Avrai una forte liquidazione? 
Sì, e se resisto altri cinque anni, sarà fortissima”.
Hai fatto la guerra, dunque, Dorando? 
Sì”.
Quanti ne hai fatti fuori? 
Nessuno”.
Mentre ora ne faresti fuori... 
Quasi tutti”.
Perché? 
Perché non si rimboccano le maniche”.
Resterà nel tempo un ricordo di te, Dorando? 
Come?”
Ho detto: credi in Dio, Dorando? 
No”.
Nonostante i nostri spazi e tempi collaterali?
Come?”
Voglio dire: che cosa ti hanno insegnato le riunioni del nostro Rotary? 
Ahi ohi”.
Che c’è? Qualcosa che non va? Ti senti poco bene? 
La schiena, l’artrosi...”
È cervicale, Dorando? 
Per forza!”
Vai in malattia Dorando? 
Vedremo”.
Hai altro da aggiungere, nel caso non ci vedessimo per qualche tempo? 
Sì. C’è pressapochismo e ingiustizia a questo mondo”.
Perché, secondo te? 
Bisogna sapersi rimboccare le maniche. C’è sempre qualcosa da fare in questo mondo qui”.
Dorando. Ti sei mai chiesto perché in tutti questi anni ti ho sempre dato ragione? 
Tu sei della razza mia, per fortuna. Scusa se te lo dico solo adesso, ma mi sono affezionato a te”.
Anch’io, Dorando, perché tu mi hai fatto capire una cosa: che ognuno può avere la propria opinione. Deve, talvolta. 

C’è questa voce, da qualche parte, magari dietro una scrivania, sopra qualche sedia, chissà dove... c’è questa voce occulta che ripete: 
Chiudete la porta, santo Dio! Chiudete la porta quando uscite. Fa corrente, volano via le carte, vola via tutto quanto, ci buschiamo un raffreddore, un malanno... La volete chiudere, quella porta? È mai possibile che non riusciate a capire che le porte si devono chiudere? Quando si entra e quando si esce, che diamine!”
Tutti noi – compatti, ora – ci chiediamo se questa sia la sua mansione specifica. Perché c’è un gran viavai, qui. La gente entra ed esce in continuazione, e nella maggior parte dei casi non chiude la porta. È giusto ed educato chiudere la porta quando la si apre avendola originariamente trovata chiusa. La voce ha un’alta coscienza di questo principio. Non è un caso che spesso al suo grido aggiunga, abbassando il tono: “È una questione di civiltà, insomma”.
Tutti uniti, ora, ci chiediamo qualunquisticamente se questa voce venga pagata – e quanto – per l’adempimento del suo compito.
Un bel giorno, anzi, tirando fuori il Torquemada che c’è in noi, convochiamo il partito. Ci disponiamo in cerchio, radunati come una vittoriosa posse, a braccia conserte, intorno al partito, che abbiamo schiaffato sopra una sedia. Gli chiediamo con un certo tono una spiegazione su questa voce che grida di chiudere la porta e, pare, non faccia altro.
Il partito chiede che gli venga ripetuta la domanda. Noi sbuffiamo e picchiamo il muro col palmo della mano, e tuttavia gli ripetiamo la domanda, con un certo tono, molto meno conciliante del precedente. Il partito fa schioccare la lingua e si mette a guardare fuori dalla finestra il suo paesaggio da rebus: due are romane sotto un pero, miseri caseggiati, le rive di una delle due Dore, bambini che giocano a pallone tra le pozze, una militare che riparte salutando la sua bella alla fine della licenza; una vecchia dall’aria epica cerca di infilare il filo nella cruna, ma non ci riesce. Anche noi osserviamo quella scena insieme al partito. Scopriamo che il nipotino aiuta la vecchia, infila la cruna, la vecchia felice gli stampa un bacio in fronte, il bimbo si pulisce col dorso della mano, la vecchia si ricrede nel quadretto che serve alla versione stereoscopica del rebus. Vediamo ancora: orti devastati dalle talpe, padri di famiglia che attendono al gioco della morra al tavolino di un’osteria, passa una splendida giovane dal collo imperlato e si unisce a loro; e pescatori che stendono al sole le loro reti, una rada, due rade, tre rade. Una vecchia legge la regola, casamenti popolari e cala il tramonto.
Il partito si asciuga le lacrime, domandando scusa. Che facciamo? Lo scusiamo? Sì, certo, perché ha usato il preservativo. 
Ne siamo sicuri?”
Certo. Non si nota lo strato di malinconia sul suo viso? Esso non manca mai di formarsi dopo la sensazione di aver perduto un’occasione unica.
Il partito riprende fiato. Le sue domande successive sono: “Avete voluto fare i provocatori? Intendete perseverare?”
Noi replichiamo con indignazione: “Provocatori? Ma che c’entra la provocazione?”
Il partito si protende tutto, dice: “Okay, okay, non serve che vi scaldiate. Era per domandare, semplicemente per domandare”. Il partito si alza dalla sua sedia, si fa aiutare a infilarsi il cappotto e lascia frettolosamente la stanza – chiamato all’inderogabile.
Una voce urla: “Gesummio! E chiudetela quella porta quando uscite! C’è una corrente da stecchire una statua e voi lasciate la porta aperta. Chiudete la porta! La volete capire? Sennò, che cosa le fanno a fare, le porte?”
Il partito torna sui suoi passi, visibilmente imbarazzato. Dice: “Scusate”, e si allontana più in fretta, chiudendo dietro di sé la porta.

lunedì 19 maggio 2014

Cacciar(s)i nei guai

Tintoretto, Socrate, la cicuta e il ginseng

Anche (il) Tintoretto soleva tingersi barba
e capelli, ma solo negli autoritratti.

Socrate non è che non sapesse scrivere: sapeva di non saper scrivere.
Quanto al leggere, Plato non dice nulla in proposito.
Opus est consultare e imbarazzare per l’eternità il professor Tintoretto (detto Massimo – ma anche Massimo deto Tintoreto) Cacciari: “Prof, scusi: Socrate sapeva di non saper leggere?”
“Be’... eh.. insoma... mi no gò... vogio dir... no ghe xe testimonianse direte... cioè... al limite... Ehi, ma cossa ti fìi caìgo? Perché no ti va a farte una ombreta?” 


E invece Cacciari, finita la lezione, torna mestamente a casa. Fra le calli, i calli che gli dolgono nelle scarpe da filosofo (scarpe strette, cervello fino), medita: “Mama mia, che figurassa.... Xe un de quei giorni... Me par da esser insemenìo”.
Ad ogni calle, ad ogni campiello, l’Amleto che è in lui prende maggiore consistenza, il corpo – quasi come il fantastico Urka! – comincia a trasformarsi; la barba si inverdognola, i capelli tintoretti pure. Sembra un marsiano (ma non il commentatore e commendatore unico di questo frog-blog with dirty little lips).
 

Varcata la soglia domestica, grida: “Bruneta! Gavemo ancora sicuta in casa?”
Dalla cucina la moglie (Santippe, ma a volte detta Bruneta – o deta Brunetta) risponde: “No, Massimo: eà gavemo finìa. Ti vol che vado in farmasia a torghene un poca?”
“Sì, ma mòvete, dèi! Xe urgente”.
Santippe-Bruneta va e torna.
“Benedeta chea femena!”esclama Tintoretto sollevato allorché la mugièr gli porge l’infuso.
Egli beve tutto d’un fiato, in una fiata. Poi, per ottenere il desiderato effetto, acchiappa (scomensia) a passeggiare avanti e indietro nella sua celletta meditativa foderata di opere di safi di tutti i tempi stati, enti e futuri. Egli conosce teoreticamente l’azione della cicuta: lenta ma inesorabile, progressiva insensibilità del corpo, a partire dagli arti inferiori. Quando la cicuta arriva al cuore, this is the end, my only friend...
Passa un’ora. Niente.
Passano due ore, niente. “Magari sarò già morto”, pensa in italiano corretto Massimo. “Ma no! Che stupido che sono o mi sembra di essere. Se sarei morto, non potessi pensare”. L’agitazione dovuta all’anomalia della situazione gli fa sbagliare la consecutio.  “E poi,” soggiunge non petito, “l’anima, a differenza di quanto sostiene Pereira Galimberti, esiste: è una roba vuota con un buco in mezzo”1
.

Una voce dalla cucina: “Massimooo! Va’ eaavarte aè man che xe prontooo!”
“Ma Santippe!? Cossa ti disi? Mi son più de eà che de qua e ti ti pensi a magnar?”
“Ma se ti xe de eà! Vien de qua, dèi! No sta far el mona, che se sfreda tuto”.
“Ma Bruneta: cossa casso ti gà messo nell’infuso?”
“El ginseng, no?”
“El ginseng?!”
“Ginseng, sì”.
“E eà sicuta?”protesta inorridito Tintoretto.
“I eà gaveva finìa. Aeora ti go tolto el ginseng!”
“Ma cossa ghe entra eà sicuta co’ el ginseng!” ribatte stizzito Massimo.
“Chei cani de to morti, Tinto! Quante vòete ti ’o gò dito da moeàr ’ste tue imedesimassioni! L’altra setimana ti voevi basar una gòndoea, el mese passà ti pretendevi che eà zente eà carigasse i relogi a seconda de quando che ti ’ndavi fora de casa2... Sù! Date co’ un legno!”
"Ti ga rason, Santippe. In fondo mi son Massimo Cacciari”, si rinfranca Massimo Cacciari.
“E un’altra roba, Massimo: doman va’ tagiarte i cavèi”.
“Posso tignir eà barba, almanco?...”




1 Da non confondersi con il concetto di Dio, che sostiene sempre Pereira –  sarebbe (il condizionale non è dobbligo, ma meglio cautelarsi) una cosa tutta vuota intorno e con in mezzo niente.

2 Che le genti di Könisberg avessero l'abitudine di regolare gli orologi sul passaggio del professor Kant, è pura leggenda (probabilmente ninja), dacché in verità egli soleva baciare i cavalli alla franzosa, invadendo le proprietà private dei concittadini. Il professor Nietzsche avrebbe voluto distinguersi per qualche prodezza analoga. Sicché, in occasione di un soggiorno a Venedig, montò alla torre campanaria della Basilica di San Marco e ne baciò l'orologio – che non la prese bene.

domenica 18 maggio 2014

L’uomo che affrontava le catastrofi con un sorriso

Il podestà-daimyo Ta-mei Frenzō, su quantomai appropriato
sfondo viola, fa intendere a gialle lettere
che il clan Daspo non è (molto) più grande
delle sue paure e dei suoi rancori.
La vicenda dell’uomo che affrontava le catastrofi con un sorriso ebbe inizio allorché egli, una volta nato e trascorso per un’infanzia igienicamente perfetta, concorse per due posti di podestà messi a bando da un antico Comune, dove l’aere era tosco e le cui genti, respirandone e aspirandone, parlavano una lingua variante a quella che, ai suoi stessi tempi, l’Allagheri di Bellincione e Bella ebbe l’immodesta pretesa di lustrare. Ne fu punito, soffrendo una catastrofe che affrontò sorridendo o piangendo punto.
Condensando illegalmente fra esordio ed esposizione (quasi a dire: fra il capo e il collo): sette secoli grosso modo (fra cui lo sciocchissimo XVII) navigati sotto i ponti gettati tra banco e banco ad agevolare l’ansioso itinerario terrestre dell’erratico vuoto, la Lingua quasi immutata e il vuoto non tendendo a colmarsi, riabilitato un bel mucchio di toschi rubelli che ebbero i papi, tutto parendo, insomma, nel Paese immaginato volgere alla rotta compresa fra quella di Laputa e l’altra di Caporetto, l’approdo fu viceversa all’evento più notevole registrato in tutta questa lunga longa (si provi a esperirla in prima persona! e poi ci si saprà dire), per massima parte inutile spanna di tempo: il Bandito Concorso a capigoverno locale.
I posti (ci ripetiamo) erano due. (Ah, perché chiedilo a nonno! – per modo di dire). L’uomo, affrontandolo con un sorriso e con un canarino suggeritore, si avvantaggiò d’uno. Il secondo (che dice nonno?) fu appannaggio d’un concorrente minore incapace di dare noia. Per ciò stesso costituiva una iattura. Benché non recepisse stipendi o emolumenti d’altra sorta. La iattura non tardò a tramutarsi in avvisaglia di catastrofe quando questo strambo prese a molestare il condivisore di potestà comunale seguendolo ovunque e in ogni tempo. Le sue intenzioni erano buie. Le sue azioni stentavano a realizzarsi. Non era passibile di intervento restrittivo di quell’attitudine fosca. Si escluse (per scongiurare violazione di questa o quella clausola dell’ampia Carta de’ Diritti Umani) la sua denunzia giudiziaria. Ogni volontà non poteva. La cittadinanza rivendicava cose. La rivendicazione ruotava su perno annoso: l’annoso primato della democrazia. Come la democrazia incidesse su se stessa pungolo i diritti (sempre rivendicati, anche se non Umani) che ne reggevano il peso, chi lo sapeva. Il podestà primo isolò inquadrandolo con freddezza allegra il fenomeno.
Riunì l’assemblea di governo. Impose la dichiarazione di stato di catastrofe. Il voto la sancì unanime. La catastrofe non era cornuta. Né offriva altre protuberanze per cui essere afferrata. La città rimase astratta. I cittadini sfogliavano l’organo di stampa inaugurato in nome della catastrofe. Il quale con reticenza infingeva novelle. Il loro sapore era stantio. Nulla invero metteva a giorno nulla. Gli sviluppi essendo troppo inviluppati. Il notiziere in carta fu soppresso – quando, vagliato, risultò incontestabile il suo vizio di forma: esso si scriveva da sé. Come, chi lo sapeva. Non soffrirono conseguenze patetiche quanti avevano contribuito alla sua fondazione e diffusione. I quanti non venendo fatti accomodare per istrada ma iscritti ad un albo. Bianco.
L'assemblea di governo assiste, con sorriso
più grande delle sue paure
e dei nostri rancori,
alla dichiarazione di stato di catastrofe.

La catastrofe dilagava. Nella persona dello strambo e nella sua ombra-minaccia ombra dell’ombra dell’uomo che affrontava le catastrofi con un sorriso.
Che vediamo un po’: il suo sorriso aveva un che di, anzi era irreversibilmente netto, breve-lampo, retrattile. (Questo, se i nostri occhi non sono un’opinione). Lampeggiante. S’accendeva e si spegneva, da parerne immotivata o esagerata oppure sopra le righe sotto le rughe, o, ancora, uno scialo, l’alternanza. (Questo, se l’ENEL non è un’opinione). Era un’arma, bianca – se vi piace – ma propria. Di lui. Dopo l’archibuso, il raggio della morte e l’ifix-tcen-tcen, la più temibile – si assicura – conosciuta dal mondo e dalla sua triste storiA (con quella conclusiva desolante inappellabile A maiuscola da Impero alla fine del ballo del qua-qua), per più di un verso simile a quella di Stefano Pelloni.


Ma sul far d’una sera, mentre rincasando traversava i ponti vecchi affaticati benché lì a sopportare il Passatore vuoto, e col favore delle ombre, se quel lampeggiare cessasse, magari questo lo saprete voi – o, ancora, nonno. A quanto ci torna, e se l’ipotesi non è una tesi, non è improbabile, proprio allora, signori nostri, che il lume di quel sorriso, rischiarando l’emittente come arma di difesa, si smorzasse. Iattura, e non inedita. Perché il molestatore doveva essere appiattato in un qualche dove. Camuffato da un qualche qualcosa. Forse. Senz’altro. Altroché – dovette pensare non smentibile il podestà uno. Percepì sibili e suspiria, aliti, altri suoni di inquietudine e spavento, minacce tangibili dai tarli insiti nella mente sua, che, evàsine, dovettero aver esplorato l’aere tosco. Gli interstizi, le intercapedini del vespro che andava superandosi verso la notte. Il rapporto presentato dai tarli non sottintendeva. Il capoGiglio ebbe un fremito. S’attestò al limitare del ponte. (Uno dei – ma sempre Vecchio, da sempre, vecchio nato – appunto). Mise bocca al sorriso, ritratto, che – senza voto del pur (appunto) inutile consesso governativo dell’Ente locale – deliberò estrarre dal “qui si parrà la tua nobilitate”-fodero nel vano testa, applicandolo alla faccia illustrata di nevi – senza silenziatore, tutt’altro, ché all’inseguitore (o stolcher, in italiano) bisognava mettergli la fifa negra in brache anzi che la situazione si risolvesse nell’effetto inverso (od opposto o contrario) – in guisa Bond o Dorellik o “l’uomo invisibile diventa visibile”, sicché urge cambio strategia, e trasfigurossi tutto: quel volto Bellincione proiettò occhiate a tresessanta, a, individuandolo, stanare il potenziale assassino.
Qui, nell’abituale – di più: fanatica – osservanza del particolare canone, un urlo lacerò la notte (era sera, ma non importa: importa il rispetto del bistrattato canone; ma magari meglio “squarciò”?...).
Nessuno saprà mai dire se quell’urlo fu l’effetto o la causa di quello che avvenne o forse non avvenne, ma potrebbe avvenire – e anche non. Ma in un recesso… della... notte... Ma sì, della notte.
Improvvisa la procella intestina.
La corsa difficile, goffa eppure agile al più prossimo punto pubblico utile.
Il sorriso: tagliato netto, chiusura-lampo, retrattile.
“Dove scusi...”
“Là”.
“Grazie. Gimme 5”.
S’ciaff!

Il ninja Hirōtoro Torogirō (del clan dei Daspo), armato di pistola-compressore spegnisorriso atmosfere letali, era rimasto in attesa, nascosto nel pozzo nero della latrina, per 3 giorni e una sera. Quella.
Se la sua missione ebbe un successo (almeno parziale), lo saprete voi – mica noi.
Lordo, lo era ormai a sufficienza. Non fu quello il problema conseguente allo sparo d’aria che, centrato il nero occhio di toro, risalì le pareti viscide e impestate della burella connessavi fino a recapitarsi in inteso obiettivo.
Il guaio fu che il daimyo Ta-mei Frenzō, malgrado l’urlo che lacerò o squarciò la notte (ma in precedenza, o magari in contemporanea, le pareti del licet), prima di lasciare il locale di primo soccorso, nel riproporre al barista “Gimme 5”, contraccambiato con un invidiabile “S’ciaff!” forza cymbalo Slingerland in mano a tuo cugino, sciorinò, come panni in Arno, integro il sorriso (netto, nervo, scatto serramanico, e dunque retrattile) con cui affrontava le catastrofi.
Ma in quell’istante un urlo squarciò la notte. Sempre se la notte non è un’opinione.


Il ninja Daspo, camuffato da sua (di lui) sorella,
si addestra nelle giovenali arti marziali
con quel campione di nonno (tuo).





CORRELATO La donna che affrontava le catastrofi con un sorriso



ILLUSTRAZIONI DI STEFANO BARATTI

giovedì 15 maggio 2014

Entro e non oltre

(Illustrazione di Stefano Baratti)

Entro (e non oltre) in te.
Entri (e non oltre) in me.
Entriamo (e non oltre) in noi.
Siamo entro (e non oltre) noi.

Entrai e non oltrai in te.
Entrasti e non oltrasti in me.
Entrati e non oltrati in noi,
c’era il rischio di un
mancato ri-entro in noi.

Mentre ero entro e non oltre te,
(e tu eri entro e non oltre me),
mi chiesi:
“Esco e non oltre in te o ri-entro e non oltre in me?”

Non ri-esco a ri-entrare (e non oltre) in me.
Non ri-esci a ri-entrare (e non oltre) in te.
Come posso ri-entrare (e non oltre) in te
se non ri-esco e non ri-entro (e non oltre) in me?

Scusa:
Ri-esci a ri-entrare (e non oltre) in te?
Altrimenti
non ri-esco a ri-entrare (e non oltre) in me.
Perché
se non ri-esciamo a ri-entrare (e non oltre) in noi
non ri-esciamo a ri-uscire (e non oltre) da noi.

Vorrei ri-essere entro (e non oltre) te,
ma sono già entro (e non oltre) noi.
Lo so.
Vorresti essere entro (e non oltre) me,
ma sei già entro (e non oltre) noi.

Siamo entro (e non oltre) l’ambulanza.
Forse era meglio se si entrava
entro (e non oltre) la porta principale.

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L'eterno ri-entro (e non oltre) dona loro ▲