venerdì 6 giugno 2014

Paolo impara l’arte ma disimpara a vivere

(Tutto per non essere da meno a suo cugino Claudio) 1

 

“La solita pischionata”, rifletté Paolo, “in un indefinito metà strada
tra freudiano e San Frediano”.
(The Duende Transfusion, illustrazione di Stefano Baratti)


Non lontano dal tònfano, i francolini futavano. Paolo ristette a studiare il cernecchio e lo smercovezzo inquartati nel pluteo. “È tempo che io risecchi il ranno, diversamente lo zarùcane del canòpo s’aggotterà al pari del pisimùreto che avrei dovuto escòdere”.
D’altra parte – ragionò – il lèndine che infrogiava tuttalmente il craccio, nonostante l’acinace colliquasse intrafinefatta il tràpeto, non revellava lo scarcaglioso pómero.
Paolo non mancava – giornalmente – di scommare la mulacchia, anche quando la curasnetta gualcava il pudellato tutto, e, talvolta anche senza scuffinare la raperella, giulebbava con foga la rizza. Da molte settimane, oramai, Paolo allappolava il tropeolo, lapazzando per benino il digrumante strofanto e, gnaulando, squittinava le palanfre che stangonavano immancabilmente i mànfani sulle piattebande. Lo stozzaccio e lo sciàvero, in verità, non era agevole caponarli; ma, usando d’un cataraffio apposito, Paolo riuscì a bollerare abilmente alcuni brocatelloni: era già qualcosa – pensò.
Non era infrequente che l’archipenzolo e l’ambrogetta s’ingavonassero, specie quando il filibotto incoconava lurcamente sull’incorrentare della licciaiuola, intanto che la liccarda si puddellava – per l’appunto – morchiosamente, posliminio uno scannello terzigliante. La sorta di ghimberga che sicché ne era estrutta – con tanto di pellucido melappio – non pareva certo adatta all’atteso smergo: ci sarebbe voluta una pòsola, o forse un potacchio – sempre che la forfecchia avesse cotticciato per tempo.
Mentre, da qualche parte nel podere, la capitagna e la frettazza cempennavano, lì appresso un massellare di macco (intonso) rifrinzellò, ma come d’un sinistro – simile a un leardo bisègolo nel maggengo alidore – e quasi un che l’infrasconasse. Paolo, come un sol uomo, caprugginò la spongata e – s’immagini un opèrcolo levogiro – pigliò a pusignare con l’osteoclaste e a dilollare convulsamente un marabotto! Quindi, senza minimamente rasierare il topinambùro, stallò come in stacciaburatta – la pellètica che lo simigliava a uno stradiotto.
Il ribuzzo e il pelaghetto bombavano, come salincervi e misiricci, in un inedito ghindazzo di pispini e sbozzini, mentre alcuni tigliosi ciccioli (causa il sovescio, forse.. ma il ripiglìno? improbabile...) un saccomanno ruzzava da una sbattentatura.
Al che, Paolo, come magato, mise mano a un giornello (inopportunamente?) e arrampicò un mofètico guaiaco (ma era proprio necessario?); tentando di niellare il sovatto d’un torcoliere apparso accanto all’oricanno (ma che sia possibile?), riuscì – in parte – a spaniare gli africogni godendardi ben logati nel proprio camauro.
L’allodialità della gavozza – stando al resoconto di Paolo stesso – fu contestata da una giuccata che egli poté occare anche grazie ad alcuni frulloni e a un piccolo botro: a quel punto, le chiarine, i cavagni, i saracchi, i nottolini e i riàvoli (senza eccezione) mucciarono ducimasticamente, sotto lo scalco di alcune menaruole chianate tra di loro con dei grillotti di neccio (e di mazzocchio – giura Paolo). Ma non era tutto: la carpasfoglia di stamiglia che costui aveva mazzicato nel tentativo di terzarolare tutti gli altri ziti, s’addocciò analogamente a un caulicolo obrizzo, che licco impaniava (ancora?) tutto quel pachebotto di navarche; inoltre, il potacchio e il nanio, come in un escomio di checchie e canicchi moinardi, rabboccarono il lucco del rosticcio (e qui la storia si fa portento!), dopo che Paolo, con la destrezza di un aspo da bilbocchetto, aveva abballottolato svariate allicciature di fénore (sic!) insieme a un paio di bazzoffie con cioncata – in un compascuo, egli giura e spergiura – che più gargotta non si poteva.
Il guazzetto sembrava fatto, dunque. Nondimeno, un bicciacuto (che si vuole esculento), rinzaffato di cretto, curro e distendino, inciuscherando una duda e un èmbrice, strombò con la mano destra un ratafià, e con la sinistra due scuffine. Quale non fu il bersgrundo dell’edule Paolo!, che, pur avendo cerziorato con diforàna imbraca l’orliccio del migliarino e il frego del granitoio, ora si vedeva costretto a un menno calibeare, non diversamente da certe gretole coobate su biciàncole o nel lattóne dei rispettivi trecconi.
Linci, Paolo dovette scuffiare il rocchio dei due lezzini e le sgorbie di altrettanti trinellatori, nella speranza di coppellare le poche bure, i greppi e i gaschi che aveva in precedenza grattapugiato grazie a una deiscente rèdola. Solo allora divisò, da bell’epulone, il coltro dell’ombrina e del totano (questo sì), e, ingangherando un’obrettizia tramoggia, vi dimoiò il suo longinquo bigherino.



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