giovedì 31 luglio 2014

La donna che affrontava le catastrofi con un sorriso

O: la donna che da piccola voleva fare, da grande, la minestra, e invece…

Lola Bunny, fidanzata in tana-cunicolo (tutto regolare)
di Bugs Bunny.
Entrambi sono fra i più fedeli seguaci di questo blog
with dirty little lips.

La vicenda della fanciulla che da grande voleva fare la minestra (e, nello stesso tempo, affrontare le catastrofi con un sorriso) ebbe inizio allorché ella, una volta nata e trascorsa per un’infanzia igienicamente perfetta, vide, a età debita, il celeberrimo segmento di quel film con Alberto Sordi, nel quale non penò a riconoscersi. Era inevitabile: si chiamava Guglielma (presto universalmente detta “la Dentona”) e, da quella bocca aggraziata (con cui poteva dire ciò che voleva), diversamente da quanto voi vi sareste aspettati, non le spuntava un fiore come alla Virna Lisi, ma protrudevano, come a dare il fatto suo al mondo, due incisivi uguali sputati a quelli vanto di Lola Bunny 1, la fidanzata (in tana-cunicolo, tutto in regola, non si creda) di Bugs Bunny, il migliore amico e fedele sostenitore (se si esclude marsiano ►) di questo blog with dirty little lips.
Si cominceranno già a notare alcune apparenti contraddizioni; e via, affrontiamole insieme, parliamone senza prevenzioni e complessi.
Che nesso esiste fra l’aspirazione a fare la minestra (da grande, adulta) e l’ammirazione per Guglielmo il Dentone? Al netto – come suole dire questo giovanottone tanto bistrattato▲ – della comunione, determinata da nome e dentoni, fra lei e il personaggio sordiano, il basito lettore medio sensuale, pensando piuttosto a una ragazzina la cui ineccepibile ambizione fosse diventare una telegiornalista (anche per gareggiare nel gratificante torneo bandito annualmente da un commendevole sito web – ma che non conta tra i suoi sostenitori Bugs Bunny – tiè!), è tentato di insorgere. Per non dire poi della questione “affrontare le catastrofi con un sorriso” (tema già qui affrontato► con successo – e con un sorriso): lo scaltrito copywriter, per esempio, in quanto del mestiere e dell’andazzo, potrebbe farci una qualche pulce: che fate, riciclate? vi autoplagiate?
Ma noi s’è calmi, s’affronta il copywriter con un sorriso; ci si confronta, sempre con tranquillità e nervi-spaghetti scotti, con ogni risma di lettori e commentatori di professione (ché, indicano le forbici statistiche, a sciami quotidiani invadono, benignamente, queste pagine).
Bene. Vedrete che tutto torna alla fine, tutto scorre – basta che sia oliato –, tutto quadra (basta che sia quadrato).


La donna, ancora fanciulla (“citta”), aveva idee nitide, valori validi e saldi modelli: ella – al pari dell’uomo che affrontava le catastrofi con un sorriso (bello di due dentini faini, anziché dentoni, ma buggy quanto basta) – piovve in Toscana (laddove il Fucci Vanni, autoproclamatosi “bestia”, piovve di, e in dove sappiamo bene; eppoi ebbe ben altra tana che quella di Bugs e Lola: insistiamo, animaluzzi simpatici come ve n’è pochi). Una volta piovuta, crebbe regolarmente, il suo buon tempo consistente primariamente nelle letture di favole e fiabe, ma non solo: curiosa per natura, s’affascinò alle polemiche filologiche di Fanfani, Pietro, sopra la Cronica del Dino Compagni, che il La Tulipe (così era detto, forse con dileggio, in quelle cerchie, in quelle terre ecc.) provò falsa (Guglielma concordò, ma con riserva); nel cantare insieme (e all’unisono) con le moniche, in que’ loro cori virginali, e con le moniche andar in processioni reggendo certi moccoloni; in frequenti girate lunghe e solitarie pe’ boschi a corre funghi e, chissà, colla speranza di imbattersi nel principe – non necessariamente machiavellico, ma azzurro questo sì – di cui narrava la Cronica (gli abitanti del piccolo borgo, a cagione di questa sua abitudine, non tardarono a giustapporre “de’ boschi” a “la Dentona”); e sopra tutto, nell’osservare rapitamente mamma fare la minestra (che là chiamano preferibilmente “zuppa”, cioè “tsuppa”). E mamma, avendo al suo tempo appreso quest’arte da mamma propria (nonna a Guglielma), ben voleva impararla alla cittina, se non altro per distoglierla da quell’impossibile innamoramento per Alberto Sordi-Guglielmo il Dentone, affare impossibile: e per la divergenza d’età fra i due, e per la famigerata ostilità del Sordi a portarsi amori in casa.
Più avanti, quando sarebbe comunque stato troppo tardi per veder concreta quell’infatuazione, Guglielma, dimentica di Guglielmo – e sempre così accade –, si sacrificò tutta ai suoi segreti progetti: fare (da cresciuta) la minestra con la sapienza di mamma e nonna e affrontare, secondo i precetti delle moniche, peritissime nell’argomento per il misurarsi quotidianamente con se stesse stirando la bocca in un inarcar di labbra (piccole ma non sporche come quelle del nostro blog), eventuali catastrofi con un sorriso.
La natura di quelle terre le agevolò la missione; il destino la soccorse meravigliosamente. Che un giorno nonna, la quale viveva in una cascina nel fitto del bosco, s’ammalò d’una malattia di nonne, così che mamma disse a Guglielma: “Deh, Guglielma: te tu me t’andresti in bosco da nonna a portarle un po’ di codesta bona minestra che ho preparata?” – in verità disse “tsuppa” – “ ’Un sta benone, come te tu sai. E bosco facendo, te tu mi corresti qualche funghetto, badando che ’un sia di quelli invelenati?”
Guglielma era ben lieta di compiere quell’ambasciata, sebbene un dubbio la turbasse: “Deh, mamma: ’un l’è che poi incontro quel Lupo particolarmente cattivo di cui narra il Compagni – ancorché smentito dal Fanfani – e codesto animalaccio mi si mangia tutta quanta in un sol boccone?”
“Suvvia, Guglielma! ’Un darai mica retta a siffatte frottole? Tutt’al più te tu ti potresti imbattere in Ivo il Fungo, che tuttavia, se te ti t’un lo provochi, risulta bono come il pane e come la minestra” – disse proprio “minestra”, stavolta. (Ivo il Fungo, che buffo personaggio: stando al mito, vagabondava ne’ boschi per dare noia alle fanciulle, specie se avvenenti come Guglielma. Ma nessuno l’aveva mai veduto, se non in certe pellicole per soli grandi in cui – sempre secondo leggenda – aveva comparsato in gioventù, guadagnandosi un ovvio appellativo, da’ malvagi detto ‘cappellativo’).
Guglielma intraprese dunque il sentiero del bosco che menava da nonna; bosco facendo si teneva compagnia cantando di quei canti partenici imparati dalle moniche, e in frattanto coglieva un funghetto qua, un funghetto là, stando accorta che non fossero del tipo letale – che si capiva dalla capocchia o cappella. Ma nel mezzo del cammin di nostra Dentona, ecco pararsi sul sentiero – manco glielo avesse ordinato il dottore o l’Allagheri (detto Dante) – il Lupo particolarmente cattivo. Che, un po’ arrugginito, in vece della rituale tiritera, notò incuriosito: “Che bei denti, e grandi, che hai: a che cosa ti servono?”
Guglielma, per nulla intimorita dal Lupo particolarmente cattivo, dacché i suoi denti erano di gran lunga più grandi e cospicui delle sue paure, rispose: “Ad affrontare le catastrofi con un sorriso, sor Ivo”, ché per l’Ivo l’aveva scambiato.
Ne fu tanto ferito, il buon Lupo particolarmente cattivo, che tirò via per la sua strada – qualunque essa fosse – senza colpo ferire e senza nemmeno un saluto; e ciò gli valse nientemeno che un rimbrotto di Guglielma: “A casa mia si dice ‘Buona giornata e buon lavoro!’ quando uno si presenta e si congeda”, gli strillò lei dietro.
“Tsk” biascicò fra i denti consunti dall’astinenza il Lupo. Che invidiava le zanne della Guglielma la Dentona de’ boschi.
“Voglio proprio vedere”, pensò la citta soddisfatta, “se un Ivo qualunque è più grande delle mie paure”.
Sul far de’ vesperi, finalmente ella raggiunse la cascina di nonna. Esauriti i convenevoli con la vecchina, a Guglielma non rimaneva che servirle la minestra in una bella scodella (o ciotola rustica, quella usata dagli architetti), concepita, da’ de’ sainers, per tsuppe. Ma un lampo attraversò la sua vispa mente: “Quando, se non ora?” si chiese la Dentona. Aveva deciso che era giunto il momento galileiano: dopo tanto osservare, occorreva sperimentare.
Invitata nonna a pazientare, andò di là, in cucina, risoluta a prepararle la minestra di suo pugno. Per scongiurare ripensamenti, buttò quella di mamma alle ortiche. E con ciò fatto, prese a sfornellare emulativamente. In testa a un’oretta, nel pentolone si era formato un qualcosa di denso e oscuro, almeno quanto la selva – e pece si sarebbe detta, ma non lo era – in cui galleggiavano grumetti di un altrettanto qualcosa. La Dentona rassicurò se stessa: “Deh, saranno senza meno i funghetti, trallallà, trallallà”.
Solo allora, scodellata l’impietosa pietanza in una ciotola, la recò a nonna, che, malgrado l’infermità, la ingollò avidamente.
Due minuti dopo, l’ava si irrigidì. Curiosa come sempre, Guglielma volle cerziorarsi se vi fosse alcunché d’abnorme in quell’inatteso fenomenazzo. La sua indiscrezione a fin di bene fu premiata dal rilevamento d’assenza di battito del polso: Nonna era andata, come col vento.
“Uh, che catastrofe!” esclamò la cittina. “Qui si va ad affrontarla con un bel sorriso, però”. Che esibì allo specchio usato poco innanzi per la controprova sul respiro di nonna, anch’esso renitente all’appello. Bello cristallino, le restituì i dentoni spiccanti fra le piccole labbra.
“’Un sarà mica da biasimare funghi?” si chiese oziosamente. “Beh, deh, si esperisce” e dissigillò le labbia, e aperse la bocca, cui consegnò un pugnino de’ funghi ricolti ne’ bosco o selva.
Attesa invano la morte per un par d’orette, e dato che quella non si fece viva, dovette scientemente tirare due conclusioni: “I funghi l’erano bonazzi, e poi la morte è meno forte delle mie paure della morte, che non ho – le paure”. Restava la catastrofe (nonna decessa e fallimento culinario), ma restavano anche il sorriso e il tempo: “Ne avrò per imparare a fare la minestra come Iddio comanda”. Donato un bascione a nonna in fronte, stabilì che s’era fatta l’ora del ritorno da mamma. Ma quell’ora era altresì l’ora in cui la selva altroché oscura: buia come la minestra assassina. Ma certo non più paurosa delle paure di Guglielma. Che, dando animo alle sue lunghe gambe, s’incamminò nella notte. Sempre canticchiando un di que’ motivi religiosi, quasi fanfaniani.
D’un tratto, ecco ripararsi qualche cosa sul sentiero. Sarebbe stato magari il Lupo particolarmente cattivo? O fors’Ivo? Guglielma stette per pensare la frasaccia tutt’intera (arrivò a “chissene”, ma lì congelò il pensiero, ché, l’avessero intercettato, chissà in quale misura le moniche avrebbero censurato l’ardire di Guglielma de’ boschi). “Io andrò dritta”, pensò invece, “foss’anche fino alla prima curva”.
E diritta la diritta via (che qui l’Allagheri le faceva tutta una barba, altro che baffo!) affrontò – con un sorriso. Che dovette abbacinare quella figura di mistero sorta in sommo d’un dosso che celava il prosieguo del sentiero, che lì declinava: “Non aver paura”, udì Guglielma detto, come sputicchiato, dall’estranea sagoma.
“La mia curiosità è più forte delle mie paure, che tuttavia non ho. Rispondi, più tosto: chi saresti te? Nel mio libro, quando uno incontra un altro, prima cosa si dice ‘Buon giorno, buona notte, buon lavoro’ e poi casomai si discorre”, s’impuntò la citta.
“Vabbene, ti darò soddisfazione, ché la meriti”, rispose quello che in breve si rivelò un omo maschile, e tutto vestito d’azzurro. “Io, che piovo ora di Fiorenza, sono il daimyo azzurro Ta-mei Frenzō, sfuggito a un attentato ordito dal particolarmente cattivo ninja Hirōtoro Torogirō de’ Daspo di Fiorenza istessa; fui anche podestà, e ora, spodestato, vado alla cerca d’un degno asilo ed esilio, dove pianar la mia vendetta e far successivamente fuoco e fiamme, ben che il fuoco e le fiamme sieno più piccioli delle mie paure. Che, del resto, non ho”.
L’innocente Guglielma, candida, il Fanfani essendo il suo massimo faro, ben ignorava cosa fossero un daimyo e un ninja. Ma viceversa aveva sufficiente familiarità con l’òmini azzurri, per sentito narrare – sommessamente e fra risolini da’ moniche – sicché ne fu contrabbacinata, da quello spodestato.
Così il destino li incontrò l’un l’altra.
Proseguirono il cammin insieme, raccontandosela, informandosi del più e del meno. Guglielma seppe da Frenzō tutto quello che sulla terra c’era da sapere (come dice l’urniloquo Keats – sottolineò Frenzō re-citando, un po’ sputicchiante, l’originale inglese “Dis is evrifing on the word you cnow that there is from cnowledge”).
E poi lo mise a giorno circa la catastrofe coinvolgente nonna: “Ora non so come riferirne a mamma, che indubbiamente se ne avrà a male”.
“Non ti devi preoccupare, ché le preoccupazioni sono sì più grandi delle nostre paure, ma il bello è che, bada bene, le nostre paure sono inferiori a quelle di mamma. E resta sempre il fatto che noi non abbiamo paure. Io, per dirne una, affronto catastrofi e cataclismi con un sorriso”.
“Come?!” s’entusiasmò incredula Guglielma la Dentona de’ boschi. “Anche tu?”
“Sì, perché? Non mi dirai che pure tu…”
“Ma stai scherzando, dico”, confermò ella.
“Ma guarda tu te un po’”, fece lui. “Quando uno dice… porka matrioska…”
“Eh eh”, fece con un ditino fustigatore lei.
“Vabbè, lascia perdere. Piuttosto, visto che – siamo realisti, chiamiamo le cose col loro nome – ora che te ed io s’è combinato tutto quanto”, corse alquanto l’azzurro, “prima cosa si fa sapere a mamma che nonna l’ha tolta di mezzo il ninja particolarmente cattivo Hirōtoro Torogirō de’ Daspo di Fiorenza, dopo di che…”
“Un momento”, l’interruppe con un sorriso, ma severo, Guglielma. “Le bugie e le fandonie ’un si raccontano mica: Fanfani l’è chiaro su questo punto, le moniche non di meno, e per me Fanfani e le moniche rappresentano…”
Ma qui fu lui a troncare lei con un sorriso e una sequenza di sputizzi: “Stassentire: io adesso trovo in un batter d’occhio un bell’esilio, ne faccio in due, massimo tre giorni una signoria – se fallisco, giuro che mi dichiaro responsabile della morte di nonna –, con un bel governo di quelli che governano al fulmicotone: te tu t’andrebbe di farmi la ministra?”

Qui termina la storia, come una moderna opera aperta. Ma mica tanto. Ecco la nostra considerazione finale (o morale della favola): c’è chi, come il Martin, perde la cappa per un punto; c’è altri, come la Guglielma, che per una “i” perde la minestra, ma dal cambio vocalico, onestamente, s’avvantaggia un sacco. Sempre se il sacco non è un’opinione.


1 Fosse stato per Lola, la minestra lavrebbe fatta con le classiche carote. Sulla ministra, non si vuole pronunciare (e a che servirebbe dire “Lola”?)

CORRELATO L'uomo che affrontava le catastrofi con un sorriso

domenica 27 luglio 2014

Winos do not march, Ghiugl do not match

Forse cercavi: My theory is that windows don’t match
No no, cercavo proprio My theory is that winos don’t march ▲
Unflinchingly unmarching winos and their beer thing.
(Illustrection of Stefano Baratti)

Rocknroll interviewer: you say beer leads to pseudomiltary behavior...
Frank Zappa: My theory is that winos don’t march… and the statistics show: winos don’t march… in the US the consumption of beer is tied to situations wherein males engage in aggressive acts, in groups, lubricated by this beverage… and I don’t know whether there is a… chemical reason why the formula for beer produces these kinds of psychological results in groups of males or whether it’s just the way in which beer is merchandised here, because I think beer is consumed in the US in a different way than it’s consumed in Europe… In Europe it’s a food stuff.. and… you know… you drink beer… Here drinking beer is a special social activity, because the concept it’s…  has been described for you in music and pictures… in commercials year after year… and you see a certain lifestyle manifested…. uh… for how you are supposed to behave when you drink beer…
Int.: How is that?
Z: Well, you have to… uh… enjoy sports… you have to hang out with members of your own sex and slap them on the back while you’re drinking, and usually on Friday night in crowded places that are sort of dimly lit, and when you drink the right type(kind?) of beer you’re rewarded with a presence of a girl with a large chest who will like you better because you drank a certain brand of beer… and you’re a more exciting person because you drink beer, and you’re more rugged and… these are all the things that should make you want to drink beer… I think that besides the psychological wrapper that’s been put around the idea of consuming beer, there’s a strong possibility that the formula of beer and induces a yeast growth in the body, and the yeast can have some effect on the way the brain works…
Int.: So that’s pseudomiltarism….
Z: … you see… guys hanging out with guys want it to be manlike… and do manly things, and maybe punch other people or hurt other people (…) and march along together… you see, it’s a beer thing


Ghiugl do not match 1

Intervistatore roccia e rotola: Dici birra porta a comportamenti pseudomiltary...
Frank Hoe: La mia teoria è che i barboni non marciano... e le statistiche mostrano: ubriaconi non marciano... negli Stati Uniti il consumo di birra è legata a situazioni in cui i maschi si impegnano in atti aggressivi, nei gruppi, lubrificato con questa bevanda e... non so se c’è un... motivo per cui la formula chimica per la birra produce questi tipi di risultati psicologici in gruppi di maschi o se è solo il modo in cui la birra viene commercializzato qui, perché penso che la birra viene consumata negli Stati Uniti nel un modo diverso da quello che è consumato in Europa ... in Europa si tratta di una roba cibo... e... sai... si beve birra... Ecco bere birra è una speciale attività sociale, perché il concetto è... è stato descritto per voi in musica e immagini ... in spot anno dopo anno... e si vede un certo stile di vita manifesta... uh... per come si sono tenuti a comportarsi quando si beve birra...
Int.: Com’è possibile?
FH: Beh, bisogna... uh... praticare sport... si deve uscire con i membri del proprio sesso e uno schiaffo sulla schiena mentre si sta bevendo, e di solito il Venerdì sera in luoghi affollati che sono una sorta di poco illuminata , e quando si beve il giusto tipo (tipo?) di birra si sta ricompensati con una presenza di una ragazza con una grande cassa▲ che vi piace meglio, perché hai bevuto una certa marca di birra... e tu sei una persona più eccitante perché si beve birra, e tu sei più robusto e... queste sono tutte le cose che dovrebbero faranno venire voglia di bere birra... Penso che oltre l’involucro psicologico che è stato messo in giro l’idea di consumare birra, c’è una forte possibilità che il formula di birra e induce una crescita del lievito nel corpo, e il lievito può avere qualche effetto sul modo in cui funziona il cervello...
Int: Quindi questo è pseudomiltarism...
FH: ... si vede... ragazzi appendere fuori con i ragazzi vogliono che sia simile all’uomo... e fare cose virili, e forse pugno altre persone o ferire altre persone (...) e marciare lungo insieme... vedete, è una cosa birra...


Ghiugl do not match 2

Roche et rouleau intervieweur : Que diriez-vous de la bière conduit à des comportements pseudomiltary ...
Frank Houe : Ma théorie est que les sans-abri ne marche ... et les statistiques montrent: ivrognes ne marchent pas ... la consommation de bière américaine est liée aux situations dans lesquelles les hommes se livrent à des actes d'agression, les groupes, lubrifié avec cette boisson ... et ... je ne sais pas si il ya une raison pour laquelle la formule chimique de la bière produit ces types de résultats psychologiques en groupes de mâles ou si c'est seulement la façon dont la bière est commercialisée ici, parce que je pense que la bière est consommée aux Etats-Unis d'une manière différente de celle qui est consommée en Europe ... en Europe, il ya une substance alimentaire .. et ... vous savez ... boire de la bière ... cette boisson la bière est une activité sociale particulière, parce que le concept est ... a été décrit pour vous dans la musique et de photos ... dans l'année au comptant après année ... et il montre un certain style de vie se manifeste .... euh .. . comment vous êtes censé se comporter quand vous buvez de la bière ...
Int : Comment est-il possible?
FH : Eh bien, vous ... euh ... les sports ... vous devez aller avec des membres de leur propre sexe et une tape dans le dos pendant que vous buvez, et habituellement le vendredi soir dans les endroits bondés qui sont en quelque sorte faiblement éclairée, et quand vous buvez le bon type (type?) de la bière, vous êtes récompensé avec une présence d'une fille avec un grand coffre▲ que vous aimez mieux, parce que vous avez bu une certaine marque de bière ... et vous êtes une personne plus excitant parce que vous buvez de la bière, et vous êtes plus robuste et ... ce sont toutes des choses qui devraient vous donner envie de boire de la bière ... je pense qu'au-delà de l'enveloppe psychologique qui a été mis autour de l'idée de consommer bière, il ya une forte possibilité que la formule de la bière et induit la croissance de la levure dans le corps, et la levure peut avoir un effet sur ​​la façon dont le cerveau fonctionne ...
Int : C'est donc pseudomiltarism ....
FH : ... vous voyez ... les garçons traîner avec les gars veulent qu'elle soit comme un homme ... et de faire des choses viriles, et peut-être de punch autres personnes ou blessé d'autres personnes (...) et marche le long ensemble. .. vous voyez, est ce une bière ...


Ghiugl do not match 3

El roca y rollo entrevistador: Que dices cerveza lleva a un comportamiento pseudomiltary...
Frank Azada: Mi teoría es que los borrachos no marchan... y las estadísticas muestran: borrachos no marchan... en los EE.UU. el consumo de cerveza está ligado a situaciones en las que los hombres se involucran en actos agresivos, en grupos, lubricado por esta bebida... y no sé si hay una razón química... ¿por qué la fórmula para la cerveza produce este tipo de resultados psicológicos en grupos de machos o si es sólo la forma en que la cerveza está comercializado aquí, porque creo que la cerveza se consume en los EE.UU. en una manera diferente de lo que se consume en Europa... en Europa se trata de una materia del alimento .. y... ya sabes... usted bebe cerveza... Aquí beber cerveza es una actividad social especial, porque el concepto es que... ha sido descrito por usted en la música y fotografías... en comerciales año tras año... y ves a un cierto estilo de vida manifiesta.... uh... de cómo se supone que deben comportarse cuando usted bebe cerveza...
Ent: ¿Cómo es eso?
FA: Bueno, tienes que... uh... disfrutar de los deportes... tienes que pasar el rato con los miembros de su propio sexo y dar una palmada en la espalda, mientras que usted está bebiendo, y por lo general en la noche del viernes en lugares con mucha gente que son una especie de poco iluminado y cuando usted bebe el tipo (tipo?) de cerveza eres recompensado con una presencia de una chica con un pecho grande que le va a gustar que mejor porque usted bebió una determinada marca de cerveza... y eres una persona más emocionante porque usted bebe cerveza, y usted es más resistente y... todas estas son las cosas que deben hacer que usted quiere beber cerveza... Yo creo que además de la envoltura psicológica que ha sido puesto en torno a la idea de consumir cerveza, hay una fuerte posibilidad de que el fórmula de cerveza e induce un crecimiento de la levadura en el cuerpo, y la levadura puede tener algún efecto sobre la forma en que funciona el cerebro...
Ent: Así que eso es pseudomiltarism...

FA:... verás... chicos pasando el rato con los chicos quieren que sea semejante al hombre... y hacer cosas de hombres, y tal puñetazo a otras personas o daño a otras personas (...) y marchan juntos... ya ves, es una cosa de la cerveza...


touyube does march



giovedì 24 luglio 2014

L’uomo particolarmente cattivo

L’uomo particolarmente cattivo
Un tirapiedi veglia sull'incolumità dell'uomo
particolarmente cattivo.
Redattori di Chi l'ha visto indicano in questa figura ambigua
una delle possibili sembianze assunte dall'AntiCristo
o dall'Anti-Bugs Bunny.
(Illustrazione di Stefano Baratti).
L’uomo particolarmente cattivo è riconosciuto pressoché universalmente come tale, nella misura in cui quasi tutti sanno distinguere la cattiveria dalla bontà, ovverosia il male dal bene – anche con, rispettivamente, la “m” e il “b” maiuscoli.
L’uomo particolarmente cattivo misura 131 cm in altezza, pur non essendo affetto da nanismo. Ne può costituire una prova il suo avere prestato servizio militare presso i Granatieri di Sardinia (quelli dal motto “tante sighe, poca frinia”), ancorché come addetto di führeria, nello specifico incaricato di stilare le tormentate liste concernenti le punizioni da somministrare a lavativi e a sospetti imboscandi. Con tanto impegno e fantasia assolse a questa incombenza, da meritarsi, negli ultimi tre mesi di naja, il privilegio di ideare castighi corporali e spirituali di rara crudeltà ed efficacia.
L’uomo particolarmente cattivo ha un volto tanto curioso quanto fuorviante: in un ipotetico mondo popolato da Bugs Bunnies, esseri proverbialmente carichi di simpatia, egli potrebbe essere considerato l’Anti-Bugs Bunny, così come noi delle civiltà occidentali a radici cristiane vantiamo, temendola, la controversa figura dell’AntiCristo. Ma di questo infame spettro – poiché “chi l’ha visto?” – non si può asserire con certezza che sfoggi due incisivi cunicolari. Né che sorrida mutamente nel compiere una malefatta, o, specialmente, dopo averla compiuta. Che invece è tratto distintivo primario dell’uomo particolarmente cattivo: le sue vittime, in prima battuta lo trovano simpatico, in seconda realizzano che è troppo tardi per ogni cosa, che esistere è doloroso fino all’ingiusto, che meglio morire e tutta una serie di cupi azzardi da melanconici.
Stando a un’opinione diffusa, e ingrassata dal detto deandreiano, uno come lui sarebbe una “carogna di sicuro” per avere “il cuore troppo vicino al buco del culo”; ma questa illazione-accusa non ha fondamento: abbiamo già premesso come, a dispetto della modica statura fisica, la microsomia (in senso clinico) gli sia aliena.
Non è affar nostro indagare sull’eziologia della sua malvagità. Anzi, cattiveria. Esponiamo per conoscenza i fatti, alla stregua di giornalisti su da bravi. Ma non siamo giornalisti, questo ci teniamo a sottolinearlo, con quella forza infusa dai blogger paranoici nei loro indiscriminanti disclaimer, laddove essi paventano l’avvento, agli albori del giorno, di qualche forza speciale (marines, teste di cuoio ecc.) che, dopo lo spavaldo assalto, resili inoffensivi con camicie costrittive, provvede successivamente alla chiusura della loro fonte di sussistenza.
Inoltre – altra importante sottolineatura ed evidenziazione – voi che ci leggete (le statistiche ci dicono che siete milioni) ci siete testimoni che non è nostra intenzione urtare i nani, ma semplicemente stigmatizzare uno o più attimini quanti ci pare poter far cadere nella categoria degli uomini (con la “u” maiUscola) particolarmente cattivi.
L’uomo particolarmente cattivo, con tutto il suo sorriso smagliante, conta numerosissimi detrattori, lo scopo della cui esistenza è detrarlo dalle spese, un progetto destinazione eternità fallimentare. Precedendoli (grazie ai servigi di addestrati tirapiedi ed esperti spioni), egli li detrae dal mondo annichilandoli in tempo utile. Quella che segue è una rivelazione shock (usiamo questo vezzoso sintagma di fresco conio ma già largamente in auge fra gli amici giornalisti), ma disgraziatamente vera, benché non – ai fini penali – comprovata: si ha ragione di credere che l’uomo particolarmente cattivo abbia fatto assassinare le sue prime sei mogli per il gusto di eguagliare il primato detenuto dallo scismatico (forse anche scisso) Enrico VIII re d’Inghilterra e di Erin, odiato perché notoriamente misurava 131 cm – solo in larghezza: 180 ca. in altezza.
Un appello: mettete in guardia l’eventuale settima.

L’uomo particolarmente cattivo, nonostante tutto, si dichiara (ed è) un soggetto democratico e rispettoso – oltre che promotore dei valori – della Costituzione. Egli, a riprova che ciò non è favola, ogni 25 aprile, 2 giugno e 27-30 ottobre, espone ai balconi più vessilli dai tre colori: bianco, rosso e verde nei giorni d’autunno, con però bleu in lieu del verde in quei due di printempo.
L’uomo particolarmente cattivo – a momenti ci dimenticavamo di precisarlo – è un capace e ardito intraprenditore. Sua non troppo occulta ambizione è diventare, un giorno, più famoso di John Lennon (e sappiamo cosa ciò sottintenda) e più benemerito dei Giovanni Agnelli. Perché il piano s’inveri, è necessario agire freneticamente, stringendo patti e alleanze di contorni alterni, chiudendo gli occhi su compromessi avventati, trascurando inutili calcoli preventivi. L’audacia gli ha consentito, in pochi anni, l’avviamento di decine d’intraprese e l’imbarco in inevitabili avventure, in forme variegate.
Alla luce dell’iter e della routine contraddistinguenti di volta in volta le iniziative (l’uomo particolarmente cattivo inaugura una data attività; assume decine di padri e madri di famiglia, legandoli al suo destino con un contratto scritto in piccolo piccolo, più in piccolo che le giuste precisazioni-minaccia bancarie e/o delle compagini di sicurtà; presi sui nervi e per bisogno, i futuri dipendenti [meglio: collaboratori] non sprecano tempo nel tentare di decrittare quelle parole incise su capestro, e si mettono al lavoro, pieni di buona volontà, di speranza in un avvenire migliore per sé e per le loro proli, illusi trattarsi d’un segnale di ripresa finalmente fattosi carne secondo le preveggenze degli economisti, un preannunzio di quella famosissima luce là dove ha fine la galleria, di – a tanto ammonta la loro credulità-disperazione – un indizio messo lì a bella posta, e con sapienza evocativa platonica, dalla provvidenza sociale. Ma, scadute le prime tre settimane e mezzo, l’uomo particolarmente cattivo dichiara fallimento e lascia tutti quanti con un palmo di naso), si è sparsa la voce che questa creatura in 16° sia affetta da turbe in testa – piuttosto che da cattiveria, o malvagità. Si è sparsa perché il coraggioso columnist di un foglio locale di proprietà del piccolo-grande errore, dicendosi forte di prove inconfutabili (e rassegnato al licenziamento), ha rivelato, in articolo definitivo, testamentario, mortis, il suo padrone essere – con alto numero di probabilità – un minus habens. Oltre a ciò, il giornalista ha fatto circolare la registrazione di un colloquio fra l’uomo particolarmente cattivo e un professionista del settore turbe al capo, il quale – pare certo – lo ha avuto (e lo ha,  ancora per poco) in cura. Ascoltando il compromettente reperto, si può riassumere tanto:
il pericoloso incrocio di psicologo e psichiatra, rassicurato dai generosi “pagherò” esibiti dal paziente, diagnostica: “Lei non è cattivo: è soltanto indisposto”. Dopodiché gli prescrive, anziché,  come logica e tradizione vorrebbero, la dolce euchessina, uno psicofarmaco, di recente introduzione, a effetto contrario: nella fattispecie/sottospecie – come la generalità degli antidepressivi, affamante – con aumentati poteri astringenti.
L’unico possibile riscontro – conclude l’indagine dell’ardimentoso giornalista – al più alto desiderio espresso dall’uomo particolarmente cattivo, il quale, consapevole che nulla al mondo lo avrebbe elevato al metro e 80 di Enrico VIII, si sarebbe parzialmente consolato, eccedendo nell’alimentazione e frustrando volonterosamente la fase ultima che ne segna il ciclo, fino a uguagliare il sovrano e superarlo in larghezza alla vita.

C’è un episodio, suddiviso in due parti, la prima delle quali può essere scambiata (è umano) per “momento di lucidità” da parte dell’uomo particolarmente indisposto.
A seguito di uno dei tanti pasticci combinati, una delegazione di accomiatati senza giusta causa, su suggerimento del di lui avvocato (“tanto non hanno letto il contratto”, è il suo mica da ridere argomento), ottenne udienza dall’uomo particolarmente cattivo (o indisposto). Erano decisi, questi padri di famiglia, a inchiodarlo a certe sue responsabilità. L’anfitrione stette ad ascoltarli, ignorando finanche i mille squilli generati da tirapiedi previo accordo. Si mostrò sinceramente interessato ai loro discorsi studiatamente fermi, alle loro rivendicazioni di stampo democratico, alle loro lamentele vuoi anche ricattatorie (figli da mandare a scuola, bollette da pagare, mettersi nei nostri panni ecc.). Per un  attimo, anzi, credettero gli ex dipendenti (o collaboratori, ma comunque ex) di star sul punto d’averla avuta vinta e dunque liberarsi dell’infamante marchio, ex, per l’appunto.
Questa la prima parte.
La seconda.
L’uomo particolarmente cattivo/indisposto sviluppò un rossore da parere un vasto eritema, quel rubizzo malato dei bevitori irredimibili, ché le gote ne tremarono come collateralmente; gli incisivi sembravano battere assurdamente l’uno a indispettire l’altro, prima che sugli apparenti decidui della dentizione inferiore (semplici marci per incuria – il giornalista sopra, malignamente, sostiene per natura). Cercava – era evidente a tutti i presenti – un alito per i pensieri, ma trovò salivette, che sputicchiò soffrendo chissà quale sentimento di vergogna.
D’un folle improvviso, ritornò con onnipotenza a sé. Diede l’indispensabile retta al richiamo di un fisso con le parole: “Ora sono impegnato”. Sdegnò un mobile.
Guardò l’avvocato suo, l’avvocato lo guardò, senza nemmeno azzardare sottecchi da briscola. Pertanto l’uomo particolarmente cattivo non vide altra soluzione che esprimere ai delegati: “Anche voi, però…” congedandoli poi con il gesto dell’ombrello.

C’è un altro episodio ancora, non meno dibattuto.
Tempo fa, all’uomo particolarmente cattivo, gli morì, d’una di quelle classiche disgrazie sul posto di lavoro, un collaboratore ancora nel fiore degli anni, un giovanottone buono e allegro, in vita appassionato di calcio, che praticava per diletto dando anima e corpo in una squadretta locale. Lui si presentò nella camera ardente appositamente allestita, dove la madre del ragazzo, straziata, persisteva nella tipica domanda che, vanamente, sogliono fare fra i singhiozzi le madri in questi casi. “Ma perché…. perché… Perché?...” Tutti i parenti, amici e conoscenti, a sfilare e a consolarla: “Coraggio, coraggio…” accompagnando l’esortazione (quasi un ordine) con un gesto simbolico, un tocco di braccio sulla spalla alla luttuosa, uno sfiorare di carezze, o mani tue fredde nelle mie tiepide e, infine, se hai bisogno di qualcosa.
Anche l’uomo particolarmente cattivo, su sincera indicazione del suo avvocato, si avvicina alla madre mutilata del suo creato. Non che le metta una mano sulla spalla, ma le presenta, con un consiglio, una verità: “Coraggio… Ora suo figlio dorme con gli angeli”.
La donna, senza nemmeno vederlo, prosegue incontenibile, urla indeterminatamente: “Ma perché?... Perché?...”
Per un istante tramutandosi in uomo particolarmente buono, si corregge: “Anzi, al fianco di Giacinto Facchetti”. Ne è certo.


Il celebre Congedo di un padre di famiglia
(dettaglio).
(Già in pinacoteca personale dell'uomo particolarmente
cattivo.
Attualmente sotto sequestro conservativo).

CORRELATO: Il signor Udo






domenica 20 luglio 2014

Quello che è quel ramo del lago di Como

Quello che non è quello che è il lago Como, bensì
quella che è la cruna dell’ago di Garda.
(Illustrazione di Stefano Baratti).
Quello che è quel ramo del lago di – come dire... – Como, che volge – in qualche modo – a mezzogiorno, tra due – se la matematica non è un opinione – catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli che sono quelli, vien, quasi a un tratto, ad andare a ristringersi, piuttosto che a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e – come lei mi insegna – un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par – ma questa è una mia opinione personale – che renda ancor più sensibile – se possibile – all’occhio questa che è questa trasformazione, e – per così dire – segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi dopo nome di lago esattamente dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua per certi versi distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. Detto questo, la costiera, formata – diciamo – dal deposito di tre – sempre se la matematica non è un’opinione – grossi torrenti, scende appoggiata a due – né più né meno – monti contigui, l’uno – se la memoria non m’inganna – detto di san Martino, l’altro, se vogliamo, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare – in tutto e per tutto – a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano sostanzialmente a settentrione, non lo discerna tosto – senza se e senza ma –, a un tal contrassegno, in quella che è una lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome evidentemente più oscuro e di forma più comune. Al netto di tutto ciò, per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi dopo si rompe in veri e propri poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l’ossatura de’ due monti, e il lavoro dell’acque. Il lembo estremo, in qualche misura tagliato dalle foci de’ torrenti, è quasi tutto assolutamente ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali e quant’altro; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle che sono quelle terre, e che – va da sé – dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi – ad essere precisi – viene in parte ad andare a trovarsi in quello che è il lago stesso, quando – beninteso – questo ingrossa: un gran borgo al giorno d’oggi, e che s’incammina a diventar città.  
Veda... Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare – e non mi interrompa, che io non l’ho interrotta, per Dio!... –, quel borgo, francamente già considerabile, era anche un castello – questo me lo concederà –, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli – e  a parlare non un è pericoloso sovversivo –, che insegnavan – diciamo così – la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate propriamente detta, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini – e qui la questione è politica – le fatiche della vendemmia (sebbene che non glielo aveva mica ordinato il dottore). Dall’una all’altra di quelle terre, dall’alture alla riva, da un poggio all’altro, correvano, e corrono tuttavia – ci mancherebbe! –, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e – abbiate pazienza – qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi (correggetemi se mi sbaglio), ma ricchi – vivaddio! – sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda – e almeno su una cosa siamo d’accordo. Dove un pezzo, dove un altro, dove una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell’acqua; di qua – se è vero, com’è vero – lago, chiuso all’estremità piuttosto che piuttosto smarrito in un gruppo – questo ve lo concedo –, in un andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che – sia detto senza offesa – l’acqua riflette capovolti, co’ paesetti posti sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora, che va ad andare a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra’ monti che – per inciso – l’accompagnano, degradando via via, e perdendosi quasi anch’essi nell’orizzonte. Resta il fatto che, il luogo stesso da dove contemplate que’ vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte, su questo non ci piove: il monte di cui passeggiate le falde – e qui concludo –, vi svolge, al di sopra, d’intorno, le sue cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v’era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e – mi cito testualmente – “l’ameno, il domestico di quelle che sono quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell’altre vedute” e via discorrendo.
Ma voltiamo decisamente pagina.


Manzoni Alessandro, Milano, uomo, 44 yo, single, sì perditempo, no fumatori, sì viaggiare (evitando le buche con acqua). Lavarsi piedi.
Mi piace: leggere, scrivere, far di conto.
Non mi piace: il Manzoni, l’ipocrisia, la falsità, la menta piperita.
Che altro dire di me... Sono una persona solare.

sabato 19 luglio 2014

(Goodbye) Ruby Friday

En attendant Googlebot
(Illustration par Stéphane Étienne Bienarmé)
She would never say where she came from.
Yesterday don’t matter if it’s gone.
While the sun is bright,
Or in the darkest night,
No one knows, she comes and goes.

Goodbye Ruby Friday,
Who could hang an age on you?
When you change with every new day,
Still I’m gonna miss you.

Don’t question why I need to be so free.
I’ll tell you it’s the only way to be.
I just can’t be chained
To a life where nothing’s gained
And all is lost, at such a cost.

Goodbye Ruby Friday,
Who could hang an age on you?
When you change with every new day,
Still I’m gonna miss you.

There’s no time to lose”, they heard me say.
Seal her lips before she gives me away”.
Lying all the time,
She won’t be contented with a dime.
(Ain’t life unkind)?

Goodbye Ruby Friday,
Who could hang an age on you?
When you change with every new day.
Still I’m gonna miss you.

venerdì 18 luglio 2014

Il paradosso del maggiordomo (non risolto)

O: se il paradosso del nonno ti fa un baffo
Quello che potrebbe essere anche un maggiordomo
(Illustrazione di Stefano Baratti)

Il maggiordomo (o majordomo) ha sempre un’età ragguardevole, oltre che – in teoria  rispettabile. Egli, quasi immancabilmente rappresentato dalle letterature sotto specie (razzistica, pressoché, come a dire ‘sottospecie’) di immondizia, implicitamente comparagonato a una pezza da piedi, esplicitamente trattato come l’ultima ruota del carro armato, accoglie gli ospiti con (in apparenza) fredda professionalità. Li mette subito a loro agio con poche, savie parole. Si fa mutamente carico di cappello e cappotto e – semmai – a domanda risponde. Aliter, se ne sta zitto. 
Diversamente dalla credenza popolare (quella che te tu trovi nelle cascine degli architetti di cui può essere a servizio), questo mancato liberto non si macchia di delitti (omicidi, per amor del corretto dire). Egli è semplicemente il derelitto perfetto. O può apparirlo.
Il maggiordomo, insospettatamente, è alquanto acculturato. Non di rado, egli intrattiene (questione di minuti al massimo, bensintenda) architetti, marchesi, (incontese) contesse, filantropi e consiglieri regionali (dalle risme possibili, qua si pesca a caso e ad istanza) ospiti del suo padrone, con dotte (e mai pisole!) dissertazioni su qualsivoglia argomento di questo mondo che funziona come funziona. Si sa bene come possa arrivare a citare Heidegger (con premessa disambiguante: “Non abiurò mai, si assunse con pienezza le sue responsabilità”): “L’esistenza inautentica è caratterizzata dal  ‘si’ riflessivo/impersonale (si fa, si pensa, si crede, ecc., imperante nell’era della massificazione”). A quel punto, l’ospite gli può sputare (liberamente) in faccia, ché il majordomo non si piega e soprattutto non si spezza. Può indugiare in ulteriore silenzio oppure – è sporadico – esclamare: “Gaodé (o gao dé, graficamente staccato) rpeoro ditupà”. In questo caso, per quei pochi che vedessero buio, sta citando Luciano Bianciardi per bocca di un immaginario pisano. L’ospite, per sua e propria fortuna, molto raramente (uno ha estro di dire mai) è pisano, sicché, oltre a non fare una piega, ’un dice ’na spezza (vi aspettavate “’na sega”, vero? Pazzi!... pazzi!).


Il maggiordomo consegnatoci dalla mitologia cinematografica


A questo nucleo, in verità, punta il nostro viaggio al termine del paradosso del maggiordomo.
In centinaia di pellicole prodotte da Hollywood (ma anche frutto della monumentale tradizione britannica di Ealing e Rank – principalmente) eccolo qui il maggiordomo eccellente e antonomastico, il butler sanguepuro: non ci cureremo di Jeeves (sacchi s’è detto e scritto da parte della critica con il c [da immaginare] Maiuscolo, a suggestione squisitamente romantica – nel senso frainteso di “romantico”), né di mostri quali Sir John Gielgud o di più recenti aberrazioni-degenerazioni, bensì, attenendoci ai classici, noteremo che il nostro Uomo, nella norma o quantomeno per statistica, vanta un cognome al plurale (mentre il prenome gli è totalmente estraneo – non perché non abbia ricevuto il battesimo, o almeno non sempre per questa non inverosimile carenza). Egli, di volta in volta e a seconda, può chiamarsi Smithers, Stames, Jennings, Soames, Chives (plagio?), Charles, Saunders, Stevens, Stokes, Ruggles, Smethells, Hastings, Giles, Higgins e via elencando. Rarissime ma documentate le eccezioni a questo regolamento (infatti, piuttosto che regola: si sospetta un dettato alla stregua di Codice Hays): una per tutte, Belvedere (e morta qui).
 

Per proseguire questa disamina, è opportuno adottare il metodo vagamente sceneggiato, diremmo. 
Veh: poniamo che il consigliere regionale Augustus Skinbierborough (presidente Commissione pari opportunità della volpe – ma solo a caccia in atto) vada a far visita a un suo vecchio compagnone architetto, la cui moglie è inopinatamente venuta meno in una nottata di tempesta, fulmini e saette. La poveretta l’hanno trovata sgolata in letto. Impressionante. Ma niente dettagli, ché non siamo in saga.
(Le forze di legge e ordine sono già presenti sulla scena dell’ad ogni parvenza crimine, bellamente epitomizzate nella persona dell’ispettore o commissario o tenente o sia quel che sia XY. Il quale, accorto e più che postmoderno, mica perde il suo tempo a sospettare il servo domestico).
Allo scampanar dall’uscio, poniamo Soames (il nome che ci è più simpatico, non sappiamo a voi) provvede ad aprirlo, per trovarsi di fronte l’uomo politico. Il quale, a stento guardandolo il muso, gli affida in custodia cappotto e cappello (l’ultimo, poniamo, ancora, che l’abbia indosso); ma anche ombrella, questo è certo: fuori sgoccia tuttavia, pur essendosi il diluvio nella sua sostanza esaurito. Creando a bella posta un buco narrativo (che, lo sappiamo, ti mette a disagio), saltando il grave incontro con l’architetto di fresca vedovanza, nonché l’essenziale vis-à-vis col poliziotto, immaginiamo che lo Skinbierborough, nel misurare a lunghi e desolati passi l’area di prima accoglienza della cascina (ridondante di oggetti vani, alcuni brutti e altri orribili: pignatte di rame impiccate ai muri istoriati di finte teste di finte volpi – quante notti lui e l’anfitrione trascorsero insonni a discutere della questione, mai trovando – come diceva, in totale errore, il Capo Commissione – un “punto di caduta” comune. E ben due credenze), avanti indietro per via dell’ansia, e della mestizia, estragga d’un tratto un toscanello, solo per realizzare di non aver di che accenderlo. Lo previene il buon Soames con un affarino orrendo, ma efficace. Curiosamente, il benservito, in prima battuta lo ringrazia e in seconda, finalmente fermando gli occhi sulla presenza alla Vita del maggiordomo, gli chiede (“come casualmente”, scrivono gli scrittori certificati – e non possiamo che dar loro ragione, merito): “Ma lei, Smithers, mi dica un po’: da quanto tempo dipende dall’architetto?”
giacché ha l’impressione (già altre volte avuta, ma “come casualmente”) che l’individuo sia in avanti con l’età (molto, magari troppo).
La sceneggiatura indica che l’episodio si svolge nel 1989, perciò: “Ho il privilegio di prestare la mia modesta opera presso la Famiglia dell’architetto a partire dal 1946, poco dopo l’entrata in vigore della Repubblica”.
(Già mentre stilavamo questo resoconto, ci si punzecchiò: “Ma dove ha luogo questa storia? In Italia? Fattispecie Toscana? Se sì, com’è questi nomi di sapore anglosassone?” E pronti replicammo [non avendo dato bada al buco]: “Esattamente in Toscana, dove le cascine e i poderi a proprietà britannica, specie inglese, hai voglia. Si pensi allo Stingo di santo”. E pure questa era fatta).

Quella che potrebbe essere una cascina per/da architetti,
meno toscana che umbra (maleficio del dubbio).
(Illustrazione, sempre, di Stefano Baratti).
Soltanto a domanda data precisa, pertinente replica, Soames si vede costretto a sottolineare che il suo nome non è Smithers.
“Smithers… Soames… vi chiamate tutti uguali voi...” s’annoia il consigliere regionale. Ma immediatamente, casomai avesse sbagliato tono: “Oh, mi scusi, non intendevo… ma comprenda… questa disgrazia…” – “Disgrazia?” s’interroga da un angolo dove ripassava la superficie di una credenza fine fine l’investigatore – “... la tensione… la pioggia, il temporale, anzi...”
Certo che lo capiva, eccome, significa il lieve moto del capo – di Soames.
Skinbierborough, mentre che tira ed esala, straziandolo, il toscanello, intanto calcola – che non è il suo mestiere, ma s’impegna, perché vuole vederci chiaro: quanti anni avrà il maggiordomo? Mettiamo che nel 1946 ne avesse avuti…
Qui, un’altra brutta notizia: ci telefona un aiuto-sceneggiatore, un raccomandatoci, fresco di quelle accademie mica sempre utili. Ma tant’è. Osserva: “Ci sarebbe questo consigliere regionale… Della Regione Toscana?… con nome inglese pure lui?...”
Ach so, diciamo noi. In castagna netta. Va be’, poi mettiamo a posto, è solo una traccia, questa. E gli facciamo una certa impressione. Quella che, coda di paglia, suona a lui, a causa della corsia preferenziale che occupa ecc. ecc.
Skinbierborough, infine, calcola un certo numero. Rivolgendosi ancora al maggiordomo: “E in quali circostanze venne assunto?”
“Papà serviva da lunghi anni” – ma chissà lunghi quanto – “la Famiglia dell’architetto – anche mamma – quando essa risiedeva in città. La cascina venne dopo”.
“Ah, capisco… Pertanto lei...”
“Alla sua morte, di papà, lo rilevai, bontà del padre dell’architetto. Ed eccomi qui”, che anche il padre faceva l’architetto. E, ugualmente, soffrì, nel ’45, la perdita della moglie, che morì con violenza. Sgolata.
In quella particolare circostanza – benché si sospettasse dei partigiani, che però risultarono estranei – l’aftermath passò via analogo.
Quella mattina, un tale di campagna, Aspen Clevermont, possidente, si precipitò sul luogo del fattaccio, in città, accolto a palazzo dal maggiordomo Soames (padre). Col quale scambiò qualche parola. Venendo a sapere che il vecchio serviva la Famiglia dal 1909. Prima di lui, il padre suo – dal 1858. Si sarebbe potuto rimontare sin quasi al XVI secolo, scoprendo che in quegli intervalli di tempo i rispettivi figli non facevano nulla di notevole a questo mondo che va come sappiamo.
 

Siamo così in prossimità del nucleo, consistente in un semplice interrogativo-ipotesi: se – come da cinematografia – il maggiordomo che, nel frangente uguale a data XX/YY/ZZZZ, accoglie l’ospite ecc. si rivela sempre d’età sensibilmente avanzata (cioè idoneo a un meritato ritiro – retribuito, s’intende), qualora l’episodio che ce l’ha reso noto si fosse verificato, diciamo, una quindicina d’anni prima, allora, noi, avremmo allo stesso modo incontrato un uomo anziano, il quale ci avrebbe informato essere a servizio del suo padrone da un numero di anni uguale a quello dichiarato dal suo predecessore (ed eventualmente, ma anche ad un tempo, successore)?
Sinteticamente: perché nei film (insistendo su quelli dell
età dorata) non si dànno maggiordomi trentenni?

Il paradosso del nonno può anche farci un baffo.

martedì 15 luglio 2014

Il filosofo che in me

Il filosofo nella siga di un filosofo
(che non in me)
Illustrazione di Stefano Baratti
guarda un bicchiere
mezzo vuoto e mezzo pieno.
    
Fin qui tutto regolare.


Egli (filosofo che in me) guarda
il bicchiere per ore e ore e ore
e ore
in un atto di imperscrutabile creatività
filosofica.
E fin qui tutto regolare.
Il pieno è sotto
il vuoto è sopra.
A un certo punto
ecco l'estasi, l'intuizione,
l'eroico furore!
Il filosofo che in me si domanda:
"E se in un bicchiere mezzo vuoto
e mezzo pieno
si desse
che il pieno fosse sopra
e il vuoto sotto?
Andremmo a toccare Galilei?
Andremmo a toccare Newton?
Andremmo a toccare Copernico?
Ma, sopratttutto:
andremmo a toccare il bicchiere?"
Prima che questa rivoluzione si verifichi
mettendo in discussione le certezze
dell'universo,
il filosofo che in me
si scola il contenuto del bicchiere.
Ma, provocatoriamente, metodologicamente,
si scola la metà vuota.
Stranamente la metà piena
resta sopra.

E poi dice che uno diventa filosofo.


CORRELATI: Cacciar(s)i nei guai

RAI FULMINEI (Muri)

Orbo di tanto, spiro.

sabato 12 luglio 2014

Musiche amare

Un ex vecchio lupo-cantante di una città di mare,
inopinatamente convertitosi a strat e scarponcini
chiodati, finge allegria e barrè.
(Illustrazione di Stefano Baratti)

Tutte le città di mare
sono tristi: lo dicono
i cantanti delle città di mare
per giustificare le
loro nenie.
 

Non c’è un motivo specifico
per cui dovrebbero essere
tristi queste città.
Ma provate a contrariare
un cantante su questo
punto e lui si metterà
a piangere e a darvi dei pugni
sul naso.


Le città di mare sono
piene di dolore,
di tragedie, di brutture,
e in ciò sta il loro fascino,
dicono i cantanti delle
città di mare.
Voi gli dite: “Ma che cosa
ci trovate di fascinoso
in una cosa tipo
un camallo che rimane
schiacciato – buttacaso – da un container?”
Loro, per tutta risposta,
estraggono dal fodero la chitarra
e vi suonano (e vi cantano) una canzone
in la minore re minore mi (sia pur maggiore),
piena di parole che
fanno rima con puttina (come direbbe Tognazzi),
e che raccontano storie di
battine
(come ribadirebbe Tognazzi) che
hanno odore di mare,
di marinai che si ubriacano,
entrano nei bar e spaccano tutto,
poi vanno con le mignatte
(come insisterebbe imperterrito Tognazzi),
non le pagano, arrivano mignacciosi
i mignaccia e giù altre botte,
un finalino sulle ingiustizie
che devono subire le
ètere (come si ostinerebbe Tognazzi
malgrado la diffida), i marinai e
perfino i prosseneti;
e voi dovete applaudire,
altrimenti vi dicono che
siete cinici e vi danno
un pugno sulla testa.

I cantanti delle città
di mare sono sempre impegnati
a essere tristi e a
cercare nuove ricette
a base di pesce di cui vanno a parlare
in televisione.
Per questo non hanno
molto tempo per imparare
a suonare la chitarra.
Forse le canzoni dei cantanti
di città di mare sono
tristi solo perché sono
tutte in la minore re minore mi (benché maggiore).
 

Il giorno in cui i cantanti dovessero
imparare a fare il barrè,
c'è il serio rischio che la musica possa cambiare
e tendere a diventare inutilmente
allegra, inservibilmente
spensierata come certi canti
di montagna1.




1 Fra effetti collaterali: trasferimento di Ugo Tognazzi da Inferno a Purgatorio – sulla parola, non allarghiamoci.

I più bei film mai realizzati - 1. Vadi retro, Santana!

(Originariamente, nell’indecisione fra un western e un horror, Vade retro, Satana o Vieni avanti, Sartana)

Una filmina in bianco e nero, con un po’ di giallo (questo)

 

clič per vedere il film muto
Clič sulla figurina per lo spettacolo
Ardua sfida all’O.K. Corral con il cinema muto. Ma questa clip è molto di più di un film muto: primo caso di musical muto per cause di forza maggiore. La colonna sonora era stata affidata alla mel gibson di Carlos Santana (gran brava persona), che poi tirò indietro l’affare serio (che personaggio...) senza spiegazioni e senza paura, tanto non si era provveduto a stilare un regolare contratto con il musicista californicano. Senza musica, senza il supernatural secret chord progression ▲ del più grande chitarrista del mondo noto, si optò prima per un silenzio parziale alla Ingmar Bergman (partial tystnaden) e infine, per non lasciare le cose a metà, la scelta fu il silenzio totale, con effetto positivo sul già low-budget dato il risparmio su eventuale doppiaggio. Il risultato fu un effetto notte molto dark, il monologo al telefono del protagonista (l’esorcista Padre Emorth, novello Klaus Kinski, a colloquio con Fra’ Diavolo-Santana in perfetto romanesco), un esercizio di stile e bravura cinematografica inferiore solo alla Anna Magnani voce umana di Cocteau e superiore solo a quello di Ornella Muti nel remake della Magnani voluto da Citto (ma con Sophia è un’altra storia ancora), ma soprattutto un caso più raro che unico di esorcismo telefonico.

Il film corto ma mica tanto, infarcito di citazioni (dagli Stanlio Laurel e Ollio Hardy di Fra Diavolo e Satana al Pupi Avati delle finestre che ridono perché la mamma ha fatto i gnocchi, fino alla fine del mondo, all’Armageddon, all’Apocalypse Now, subito, alla svelta, che nun ciò tempo da perde, a ogni sorta di disgrazia, cataclisma, catastrofe), è fruibile a vari livelli. Anche terra terra. Ma in ultima analisi, in ultima sintesi e in ultimo tango a Zagarolo, è una tremenda vendetta ai danni del samba-pa-ti-to fedifrago, protagonista subliminale invisibile insieme al visibile e vivace (malgrado il nome) Padre esorcista, incisivo anche di dente. (Interessante la tematica allusiva alla reintroduzione dell’aglio, olio e peperoncino negli esorcismi).


PS: Dice: "Cos’è sta storia di parlare al telefono in un film muto? Ciavete i sottotitoli?" — Dico: "Sottotitoli? Semmai i sopra-titoli, cioè ci stanno i fumetti, no?..." — "Ah, i fumetti... mo’ ho capito abbastanza".