lunedì 9 dicembre 2013

Punti cardinali · L’uomo che venne da lontano e andò ben oltre

L’ Uomo che venne da lontano
in un singolare schizzo. La testa, apparentemente assente,
è un semplice effetto trompe l’oeil

In tempi non sospetti (ché avevano ampiamente dimostrato la loro estraneità a se stessi c/o chi di dovere), noi froggers (with dirty little lips), come accade a caratteri con calibro dell’apocalittico Giovanni(n) (Senza Paura punta) ma soprattutto dell’entità di Nostradamus, Menagramus, Isacco Giacobbo e innumerevoli oltre-uomini di profezia, fummo punti da una benché non cercata vaghezza in virtù della quale ci trovammo, un bel giorno, a tener compagnia e botto alla schiera degli aruspici, in testa ai quali saremmo inclini a installare il felino Malachia, che nei suoi celeberrimi quanto criptici 111 motti espose visioni fatali di papi e anti-papi (si badi – detto divagando alquanto – che è uno dei pochi affari degli ultimi quattro e oltre secoli in cui non ha parte alcuna l’Uomo dell’ultimo dì mercedonio), con abbraccio che si estendeva dal pontificato del Celestino II fino a quelli compresi nella Fine dei Tempi, ci pare di capire. E qui cominciamo bene: non siamo pratici di cose astrofisiche (vedete: manco abbiamo la certezza che si tratti di cose astrofisiche), ma ammettendo e concedendo (tutto, fino a restare ignudi) una visione allucinata e prosaicamente impensabile dalla mente umana come lo spazio entro il quale si collocherebbe un evento Finale irreversibile – che, in turno, si supporrebbe non scindibile dall’influenza dal Tempo, in un’in(de)terminabile complicità dei Due – possa, dopo tanta catastrofe, essere ancora popolata di papi e anti-papi che se ne stanno in giro pontificando quasi niente fosse, e con l’aggravio dell’esposizione visionaria di Malachia – cui purtuttavia confermiamo la nostra stima e rispetto riconoscendone la buona fede –, ci rimane nondimeno ostico l’allineamento con un vaticinio che disimpegna l’istituto del papato dalla sua suprema funzione temporale (cioè politica). In sintesi: esiliato a regnare sul nulla, un pontefice perde un’alta percentuale del suo smalto e pertanto non è meritevole (o passibile) di ludibrio astrologico.

Comunque sia, a quegli scagionati tempi, si partorì anche noi una visione, alla Borges (ci si condoni l’accostamento: non sarà difficile in quest’epoca di passioni), piuttosto che alla Malachia – per giunta con ritaglio polemico, obiettivo il Márquez; ma nell’innocente forma di una stoccatina – sotto specie scritta, tradizionalmente – e convenientemente – specificata dal termine “racconto”, composto di un certo numero di motti (“mots”), indubbiamente maggiori di 111, magari anche criptici, ma privi di drammatiche valenze numerologiche. Nel quale, sbrigliata da ogni regola di contingente verisimiglianza, dominava la figura (“surreale” – suole puntualizzare chi col surreale mostra familiarità non inferiore alla tua con tuo cugino o tuo tsio) di un papa che si volle sudamericano.
Senza dettagliare da quale fra i Paesi dell’America meridionale egli originasse (pare in tutto uno di quegli accorgimenti in smaliziata adozione presso i pronosticanti di cui in alto, del genere – volgarmente ma efficacemente detto – “mettere le mani avanti”), ma dandogli un nome e un cognome (anzi che, in modi inauditi, montasse al soglio predestinato) con vaga eco di significante precolombiano, ossia Gutierro de Utziqui; chi avesse letto quel conto, sarebbe inoltre stato informato circa l’estrazione “campesina” del cardinale – a voler essere onesti e più realistici dei realisti, il “de” striderebbe con i modesti cognomi di quel ceto, che, poco abbiente, non potrebbe nella più immaginifica e nervosa delle fantasie concedersi (tantomeno se ne insognerebbe) l’acquisto di un predicato signorile. Ma il punto non è dolente fino all’irreparabile.
Sicché (questo accadeva intorno – quando non dentro – l’anno 2001 o forse 2), dopo lunghe (otto, o sette, ma sempre anni!) revisioni e meticolosi, cauti eppure rigorosi colpi di lima, finché sopraffatti da quell’urgenza che è combinazione di vanità (ecco – pressappoco – una spiegazione all’usanza che, se qui da Noi va indisturbata sotto la sigla APS, nel mondo anglosassone, senza tanti sotterfugi acronimici, è ostensibilmente, malignamente etichettata “vanity press”, e nell’Oltralpe designata da un serioso quanto esplicito “édition à compte d’auteur”) e timore di veder la storia del cardinale andare a male come (e dove) vanno certe vivande, giunse la risoluzione – conseguenza di cortesi declinazioni editoriali a dozzine – di rendere tuttavia pubblica (ma lo era già stata, sull’internèt, senza che la nostra e altre vite ne venissero scalfite) quella storia-profezia, rifilata ad un florilegio di novelline eccentriche assemblate sotto il titolo onnicomprensivo di Remakes (Cigoli) – proprio con quelle parentesi: non ne era, il contenuto, inteso a sottotitolo (perché si scelse quel titolo, qui non lo stiamo a documentare).
L’anno 2009, dunque, eccolo l’APS autoredatto vedere la luce, che negli anni a venire, gradualmente infiochendosi, infine si spense – ma per nostro lucido calcolo, a seguito di questa valutazione: un libro (di carta) che in quattro anni stabilisce un record planetario (tanto si sa…) per molti versi ignominioso, e che pochi – dal 1455 a oggi – possono vantare, tanto da tentarne il detentore di proporsi alla Guinness (non in quanto birra), va dolcemente soppresso, o deve almeno subire un certo qual cambiamento di connotati. Ora, la trista antologia viaggia sotto mutato titolo – sperduta come un novello Major Tom ma senza potersi appellare all’illusorio conforto di un Ground Control – di raggio in raggio della grande e selettiva Tela sub specie electronica. E lì rimanga, che un pochetto ci ha stancati.



Tornando dall’inevitabile digressione al nostro punto, ebbene: l’Utziqui (o de Utziqui) – sempre in quell’immaginazione – conseguiva il primato nella Sede di Pietro con peripezie le più difficilmente prefigurabili e con criteri nettamente illeciti (e illegali), benché il preteso effetto della brevissima novella fosse quello di evidenziare, per una serie di accadimenti compressi, come il porporato sudamericano (divenuto, piuttosto che eletto papa) introducesse una sia pur effimera rivoluzione nei costumi vaticani. Non c’è traccia di giudizi di alcun genere, né di merito etico né – per così dire, come dire, vogliamo dire – religioso o (ce se ne scampi!) di sfera “teologica”.
Ma quanti (certamente non troppi) volessero sapere di che cosa stiamo parlando, troveranno senz’altro il modo di leggere lo scampolo narrativo in questione.
Qui, viceversa, vogliamo soffermarci su ciò che esso trascura relativamente alla sorte patita da due cardinali concorrenti alla Cattedra pontificia.


Par di tornare alle cruente leggende borgiastiche, questo è vero (ma si legga il racconto, si legga pure – stranamente intitolato Settembre!, con esclamazione funzionale), tuttavia il Gutierro, agendo con quell’imprevedibile estro suramerico “su cui ci ha sempre tenuti informati Márquez con bilioni di pagine” (questa, citando, la “stoccatina”), combinò un finimondo, quel giorno (di settembre…), allorché ripulì la piazza dai competitori, del tutto dimentico di cosa fosse la pietà. Il resoconto parla chiaro.

Ora, ciò che in quello scritto si sottace fu la fine orrenda riservata dal papa “eletto” a due cardinali in particolare, usando di un metodo trascurato (curioso!) persino dalle più fervide menti dell’Inquisizione. A un certo punto, si fa cenno, nella fantasiosa cronaca, al “disavanzo totale di uomini color della porpora”, palese falsificazione della falsificazione (tanto è il racconto Settembre!), dacché due di essi – il nome? e chi (se) lo ricorda… – scamparono lì per lì alla furia di “Utziqui all’iniziativa” (cit.), trovando ricovero in chissà quale sgabuzzino remoto, ma senza farla franca. Nel momento in cui il neovicario massimo – benché a dure faccende obbligato – si prese una pausa per due conti che però non gli tornavano e non tornandogli fu bensì in grado di associarli a due nomi, con inumana prontezza di spirito decise di affidare la soluzione del caso a suoi fidati vicari sicari che lo avevano seguito in Roma dalle campesine terre avite.

Si sa di papi che, nei rari momenti di libertà dai loro oneri, si dedicano ad attività le più svariate per ritemprare lo spirito e la mente (“hobby”, “svago”, “distrazione”), nonostante la carenza di una seria letteratura in proposito (prevalendo la tendenza gossipara di taluni pseudostorici ovvero vaticanisti di non eccelsa lega, i quali – perdonate la franchezza – ci hanno riempito le tasche con obsolete, presunte indiscrezioni sulle manie, più che passatempi o diversivi, dei pontefici – il filone Borgia è inesauribile, insomma). Utziqui, ai tempi della giovinezza contadina in patria, studiò con entusiasmo l’apicoltura: ne fu, si dice, un pioniere nella plaga agricola d’oltreoceano, ne fu divulgatore e le diede impulso con giovamento per la povera economia locale, e della dedizione venne ripagato in termini di apprezzamento generale dei campesinos.
Così, quando fu il momento di traversare l’oceano per la prima venuta in Roma, non poté rinunciare a farsi accompagnare dagli insetti e dai di loro favi, che assegnò in custodia temporanea a un esperto e fidato apicoltore vaticano (in realtà, giardiniere). Poi, intensificandosi la sua attività nello Stato interno alla città, dovendosi là trattenere con sempre maggiore frequenza e per periodi sempre più lunghi, ebbe modo di dedicare più tempo (quello d’avanzo, resta inteso) alla cura delle creature. Delle api, della loro vita e abitudini conoscendo pressoché ogni segreto, Utziqui prese a concepire un disegno, parzialmente oscuro persino a lui stesso, in quanto ispiratogli da una teoria che necessitava d’un riscontro pratico. Passò notti insonni tra i favi, tra le arnie, biancovestito (ah… un presagio?) di tuta e maschera-velo protettivi, negligente alcune sue incombenze, tra cui la preghiera, o consacrandovi (no pun intended) attimi appena. Probabilmente senza esserne del tutto consapevole, il cardinale andava elaborando uno schema scientifico sui cui esiti non aveva certezze ultime, sebbene il suo inconfessato (n.p.i) obiettivo fosse la Creazione di un organismo geneticamente modificato, una Superape o Ultra-ape. L’intenzione di fondo era lodevole (non ci dilungheremo su, anzi non sfioreremo nemmeno questioni attinenti alla dottrina sociale della Chiesa in merito agli OGM, con il rischio di smarrirci nei da noi impraticabili meandri dove si dibatte di moralità – intrinseca ed estrinseca – della manipolazione genetica. E mica ce ne intendiamo granché). Egli vagheggiava la generazione di un’ape mellifera capace di produzioni più ingenti e più sofisticate ad un tempo, a puro ed esclusivo beneficio dell’Umanità. Ma non è improbabile che Utziqui fosse visitato dal dubbio, il quale – ora sappiamo – ebbe la peggio sotto l’attacco dell’anelito scientifico.


Saltiamo le genotecniche nello specifico impiegate dal Gutierro – che restano comunque secretate. Saltiamo i tempi di gestazione. Saltiamo le modalità riproduttive dalle api (diversamente dovremmo portare quei noiosi, ipocriti esempi con cui regina e fuchi cercano di spiegare alla prole come essa venga alla vita, cioè facendo imbarazzato e metaforico riferimento alla trafila seguita dal genere umano per generare i bambini).
Finalmente un giorno, un bel giorno (non è luogo comune), vide la stupefacente nidiata e udì l’insistente ronzio di alcune Superapi (o Ultra-api). Dei fenomeni nunzi del tanto atteso evento, il giardiniere corse a informare il cardinal Utziqui – preso altrove dai suoi consueti doveri.
In preda a un’eccitazione che chi vuole può comprendere, egli raggiunse il fantascientifico alveare, senza trattenere le lacrime come gli occhi caddero su una neonata che avrebbe conservato un posto di privilegio negli affetti del futuro pontefice. L’incredibile è che – sarebbe parso “per uno di quei portenti alla sudamericana” (cit.) – proprio quel Superessere avrebbe ricoperto un ruolo fatale nell’episodio che ebbe per vittime i due cardinali riparati nello sgabuzzino.
La prediletta ricevette un immediato e nemmeno troppo sofferto battesimo informale: fu chiamata decisamente Ape Papale. (Questa, ci viene da osservare, più che una forma di presagio, ha invece traccia del supposto peccato di presunzione, pur non essendo ancora un Vizio Capitale). Nessuna fonte a noi disponibile precisa se le sorelle ricevessero anch’esse un nome vero e proprio (nel senso proprio di “proprio”, non in quello, abusato, in questa locuzione, dalla stragrande maggioranza delle genti, specie [tele]giornalistiche, allorché – per istanza – copulandolo con “vero”, pretenderebbero, vanamente, di corroborare la forza di un dato sostantivo, col risultato di una resa ridondante quale “un vero e proprio nubifragio” – quasi esistessero tipi di nubifragi “falsi e impropri”. Noi, qui, la s’è usata, la locuzione, per un’estemporanea polemicuccia fra le parentesi, non per aprire [entro queste, magari, ormai occupate] una polemica “vera e propria”).


Ape Papale al culmine del suo fulgore guerriero.
Sull’aluccia è posibile notare
il tipico gallone di
Generale di Brigata per Superapi.
Erano uno splendore, che nei pochi giorni seguenti andò magnificandosi: e nell’aspetto e (soprattutto) e nelle dimensioni, indubbiamente abnormi. In incessante lavorìo, si sviluppavano, giorno dopo giorno, secondo il dettato di Natura e sotto le attenzioni di Gutierro e del giardiniere; attenzioni che però, in capo a poco più d’una settimana circa, si trasformarono in cure, ma nel loro senso etimologico più proprio (e vero) cioè preoccupazioni, quando le proporzioni degli insetti, insieme ad altre manifestazioni fisiologiche – il ronzio tendente alla distorsione (si immagini una di quelle chitarre di cui si dotano gli esecutori del metallo pesante), un’insolita irrequietezza nel volo che man mano si traduceva in evoluzioni audaci e fendenti l’aria con segni di aggressività, la riluttanza a far avvicinare più d’un tanto il giardiniere, ma non era ancora tempo di miele  – sembrarono aver ormai sfidato la Natura essendone sfuggite al controllo e non rispondendo alle Sue direttive.

Passò qualche giorno ancora (e in quel frattempo – qualcosa subodorando – il cardinale aveva cautelativamente suggerito al suo assistente di non frequentare il luogo delle arnie), dopo di che Utziqui fu sensibilmente turbato alla scoperta di un ormai certo scherzo applicato da Natura alle sue creature. Parliamo, per l’esattezza, proprio di Ape Papale, monarca assoluta delle api consorelle – ne aveva ogni evidenza – nella quale il cardinale riscontrò un pungiglione di misura – sempre in proporzione col resto della struttura fisica – non ordinaria. È indispensabile sapere una cosa: l’ape pupilla, benché caratterizzandosi come le altre per quei fenomeni sopra accennati, li cessava nel momento del contatto ravvicinato alquanto con il suo cultore, e licenziando gli apparenti comportamenti aggressivi e forse ostili (imitata dalla famiglia), si concedeva ai suoi affetti come la più mansueta delle creature. Perciò, il cardinale poté esaminarla da una distanza minima, verificare la straordinarietà di quell’aculeo e chiedersi infine se il dardo – data l’anomalia – fosse più che un organo strutturale. Per tale accertamento, sarebbe stata naturalmente necessaria una sperimentazione, con conseguente morte della bestiola. Non era questo che Utziqui voleva.
Ma ancora “per uno di quei portenti…”, come ad averne inteso il pensiero, Ape Papale, subitanea Mrs. Hyde, emise un ronzio Kirk Hammett al top, vibrò le ali (pareva un caccia allertato con breve se non nullo preavviso) e si sollevò in ultrasonico volo, che, tempo millisecondi, rivelò avere un preciso bersaglio: il gatto (non papale e nemmeno cardinalizio, forse un semplice randagio infiltratosi chissà in che modo nella sorvegliatissima area vaticana) assunse, su quattro piedi, un’aria interdetta – interlocutoria, sarebbe meglio dire – come sorpreso dalla stessa sorpresa di quell’inatteso attacco. Le quattro zampe montate su quei piedini facendogli otto giacomi, lo sguardo da Stregatto sbronzo e miagolando “me sento tutto strano”, la vittima, barcollante, riguadagnò la misteriosa via che l’aveva lì condotto per dirigersi istintivamente verso il Cimitero dei Gatti – ché la sua inesorabile Ora gli suonava scoccatura – situato, dicono, in un probabile recesso del Colosseo, dove, fra sofferenze da non dire, trovò requie (per un verso immeritata e per un recto meritata) in capo a un paio di mezz’ore.

E intanto, l’Ape ad ogni parvenza giacendo di quel giacere irreversibile cui sono destinate le api dopo la loro tipica malefatta, il cardinale tornato a sé dallo stordimento si affrettò a verificare la situazione, che giudicava tragica. Ignorando se fosse in qualche insperato modo rimediabile, ebbe mille bizzarri pensieri, fra cui l’applicazione della respirazione artificiale al devastato insetto. Ma quell’apparato boccale era una sfida impossibile – ben lo sapeva Utziqui. Soccorso presso terzi (e di quale natura, poi?) non l’avrebbe trovato. Tutto faceva mal disperare.
In casi simili – non serve essere cardinale per saperlo – rimane poco da fare, se la preghiera all’Altissimo vi pare poco. A ciò si accinse il prelato, ché – non si può mai dire, pensò sopra le righe – forse il suo implorare avrebbe trovato ascolto. In tanta confusione non individuando la preghiera del caso – e una a misura di frangente in verità non esisteva –, si provò a raffazzonarne un’altra di sua ideazione, le idee però vieppiù confuse. In prossimità di un bel fulminante “finalmente”, tuttavia, ecco che la disgraziata (più avanti il cardinale avrebbe attribuito all’Onnipotente quella facoltà che viceversa è esclusiva – come non ci stancheremmo di sottolineare se ci venisse chiesto di farlo – della malachiaca, nostradamica nonché isacco-giacobbica compagnia), col fremere debolmente, diede uno di quei segni caratteristici degli esseri in vita. Solo allora il suo cultore-tutore proruppe in pianto e fece a premurarsi di quale premura che fosse; ma non fu necessario: Ape Papale – erano trascorsi due minuti… Ma neanche… – era più arzilla, più bella e più superba che pria. (“Bravo”. “Grazie”. – si sarebbe udito provenire, come rapido scambio di battute fra vecchi compagnoni, rispettivamente da sotto e da sopra il cielo di Roma [quasi cit., ma vedi]).
Utziqui non tardò ad aggiungere nuova conclusione (sospettando che non fosse l’ultima) alle tante già accumulate: Ape Papale, e le consorelle sue, si distinguevano dalle altre al mondo note per un’ennesima meraviglia più o meno naturale: sopravvivevano alla loro comunemente segnata sorte, e, chissà, non è da escludersi che serbassero altre qualità nascoste. “E se fossero state immortali?” non ebbe il tempo di pensare Utziqui...




I giorni che seguirono furono devoti alla controprova, cui parteciparono tutti i membri dell’arnia. I risultati furono stupefacenti: le maestranze del Colosseo non seppero se compiacersi o meno della quasi totale estinzione dei gatti raminghi, che gravemente fastidiano i turisti, ma che nemmeno per i residenti sono motivo di incontenibile tripudio. Forse a risentirne furono soltanto quanti inconsciamente o studiatamente li scambiano per pollastri – talora per fame, talaltra per il profitto.

E le settimane – i mesi – che seguirono ancora, il cardinale Utziqui (senza che nulla trapelasse fino al dominio pubblico) da coltivatore passò ad addestratore delle sue creature. E pure di quest’incombenza – lasciata ad Ape Papale, appuntata come di un alto grado militare – ebbe a sbarazzarsi. Era la testa di un plotone delle dimensioni di compagnia, che diventò delle dimensioni di un reggimento, ma nella sostanza l’ingente unità svolgeva mansioni di Guardia del Corpo del cardinal Gutierro (de) Utziqui, arnia-guarnigione mobile, si badi bene, che il porporato portava sempre con sé in apposita pseudo-cappelliera (circa la cui utilità, se vogliamo dire il vero, un po’ fra i colleghi si mormorava). Avrebbero avuto voglia i malintenzionati a nuocergli! Di fatto, un episodio increscioso avvenne durante una sua visita (più in forma di rimpatriata che di missione pastorale, pare) in terra sudamericana, allorché una banda di masnadieri dedita alla teologia della liberazione progettò e diede effetto a una cattiva azione, cioè assaltò Utziqui mentre, a bordo di un’automobile, senz’altra compagnia che la sua cappelliera, transitava in località campesina, allo scopo di sequestrarlo e successivamente aprire non fu mai chiaro quale negoziato in merito a una non nettamente definita rivendicazione d’ordine – anche qui buio – imprecisabile. Il prezzo di tanta incertezza e farraginosa organizzazione dell’attentato fu pagato dai fuorilegge con la vita, che, similmente ai gatti del Colosseo, ma senza il conforto di un cimitero comune, persero in malissimo modo sotto il contrattacco delle truppe con in testa l’Ultra-Ape Papale (all’epoca ricoprente il simbolico fino a un certo punto grado di Generale di Brigata – probabilmente non corretto sotto l’aspetto militare, ma di rara efficacia per il morale delle guerriere).
Dopo il poco noto incidente, Gutierro non ebbe necessità di impiegare la sua Guardia personale con esiti tanto efferati: nulla gliene diede particolare motivo. Ma d’altro canto non la lasciò riposare su quel pur prestigioso alloro: l’addestramento non fu mai abbandonato, la ruggine non minacciò mai quel bellicoso sciame. Presso il fondo all’orizzonte c’era il giorno – era la convinzione del cardinale – in cui sarebbe dovuto nuovamente ricorrere ai servigi della sua milizia. Vuoi anche ad onta della sua volontà.


Ora, riandando a Settembre!, in quel “… rimandando a domani quello che non poteva fare oggi… ” è possibile insinuare – al di là della precisa collocazione temporale e foss’anche fra parentesi, non facciamo i pedanti! – l’episodio dello sgabuzzino contenente i due cardinali che (anche non beatamente, questo può darsi fin che si vuole) sognavano di essersela cavata a buon mercato, senza, in quel lungo mentre, soffermarsi – è un caso di “fantasia de li nervi” – su un dettaglio cospicuo anche ai non vedenti: che cosa c’era oltre quel “buon mercato”? Un buon mercato dell’aldilà, per cosi dire? Non potendoli fare tanto sprovveduti, saremmo inclini a dare una spiegazione semplice-semplice: erano – mortalmente peccando – in preda all’inconfessabile disperazione. Erano in nuda attesa di un segno che li facesse ravvedere della bestemmia.

Furono invece sopraffatti dalla spietata incursione guidata da Ape Papale inviata da Utziqui alla ricerca dei responsabili dello scompiglio nei conti del neo-papa. Non indugeremo sui dettagli cruenti; ma, in sintesi, furono punti, i cardinali, da alcune decine di aculei, forse centinaia. Prima di varcare la soglia (e non il soglio: quando si parla, e spesso a vanvera, dell’ironia della Sorte…) di Pietro Santo, ebbero a travagliare orrendamente. In aggiunta, patirono anche (ma qui rieccoci al “per uno di quei portenti…”) la beffa di un ritratto polaroid (non può trattarsi di una di quelle ormai abusate operazione di fotoritocco, dandosi l’inesistenza, al tempo, dello strumento d’addobbo grafico innominabile) che ce li fa apparire ancora nella fase disperante dell’incidente del ripostiglio.
Questa – potremmo dire – la fine di una postilla quasi dieci volte superiore alla postillata.

Della straordinaria avventura terrena e vaticana del rivoluzionario pontefice che venne da lontano, ora sappiamo tutto (anche se, qualora ci venisse chiesto, non ci stancheremmo di ripetere: “Leggetevi il documento Settembre!
, per amore di completezza”).

Quanto ad Ape Papale (e le sue apàzzoni), dell’eroico e mostruoso OMG si sa quanto etologi radicali si piccano di riuscire a interpretare dai miau-miau della superstite prole felina. Gli spuri resoconti parlerebbero di un quasi immediato declino della condottiera agli ordini del Líder Máximo. La sua potenza sarebbe venuta meno subito dopo il raid nello sgabuzzino, spegnendosi e consumandosi in un prodigioso e horribile visu nulla. È questa la canonica fine dei mostri nel canone dell’orrido. Noi rispettiamo le convenzioni dei generi.
Alla censura è sempre preferibile la
CESURA.
Troppo truculenta la scena di
Ape Papale Spenta
I gatti – notoriamente fra le predilette spoglie mentite che il demonio ama assumere – ancor oggi sogliono alzare i loro alti guai dagli spalti dell’anfiteatro Flaviano, che quelli scienziati sopra, appostati sui tetti tutti dell’Urbe, interpretano simultaneamente (e unanimemente) così: “Ape Papale Spenta”. Se ciò fosse vero, noi, che tanto abbiamo dileggiato l’uomo che diceva “chapeau!” a tutti?, a lui ci assoceremmo (o “associeremmo”?… ) volentieri, scappellandoci vistosamente di fronte allo strano ma vero e terribile anagramma dantescamente risultante da quelle tre parole secondo la soluzione proposta dagli incalcolabili reincarnati di Malachia.



Chissà se il buon Papa (buono come il suo lupo ammansito) – mentre scriviamo in carica (ma non quando scrivemmo dello spietato predecessore, pur anche lui venuto da un analogo lontano) – è a conoscenza di questa profezia… Chi lo sa… Però, in seconda battuta: che sciocca ipotesi: certo che no, e nemmeno del caso Utziqui, che in fondo è squisitamente letterario, ma soprattutto, se gliene fosse malauguratamente giunto rumore, la nostra aspirazione ad essere inclusi nel Libro dei primati ne sarebbe definitivamente compromessa, seconda grande disillusione della nostra poca, miserabile e insignificata vita.

Ed eccolo qui, tandem! il tandem di sventurati e brutalmente PUNTI CARDINALI, in un olio polaroid che li ritrae in disperata attesa del trapasso al buon mercato dell’aldilà dopo il feroce raid delle Ultra-api.


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