venerdì 18 luglio 2014

Il paradosso del maggiordomo (non risolto)

O: se il paradosso del nonno ti fa un baffo
Quello che potrebbe essere anche un maggiordomo
(Illustrazione di Stefano Baratti)

Il maggiordomo (o majordomo) ha sempre un’età ragguardevole, oltre che – in teoria  rispettabile. Egli, quasi immancabilmente rappresentato dalle letterature sotto specie (razzistica, pressoché, come a dire ‘sottospecie’) di immondizia, implicitamente comparagonato a una pezza da piedi, esplicitamente trattato come l’ultima ruota del carro armato, accoglie gli ospiti con (in apparenza) fredda professionalità. Li mette subito a loro agio con poche, savie parole. Si fa mutamente carico di cappello e cappotto e – semmai – a domanda risponde. Aliter, se ne sta zitto. 
Diversamente dalla credenza popolare (quella che te tu trovi nelle cascine degli architetti di cui può essere a servizio), questo mancato liberto non si macchia di delitti (omicidi, per amor del corretto dire). Egli è semplicemente il derelitto perfetto. O può apparirlo.
Il maggiordomo, insospettatamente, è alquanto acculturato. Non di rado, egli intrattiene (questione di minuti al massimo, bensintenda) architetti, marchesi, (incontese) contesse, filantropi e consiglieri regionali (dalle risme possibili, qua si pesca a caso e ad istanza) ospiti del suo padrone, con dotte (e mai pisole!) dissertazioni su qualsivoglia argomento di questo mondo che funziona come funziona. Si sa bene come possa arrivare a citare Heidegger (con premessa disambiguante: “Non abiurò mai, si assunse con pienezza le sue responsabilità”): “L’esistenza inautentica è caratterizzata dal  ‘si’ riflessivo/impersonale (si fa, si pensa, si crede, ecc., imperante nell’era della massificazione”). A quel punto, l’ospite gli può sputare (liberamente) in faccia, ché il majordomo non si piega e soprattutto non si spezza. Può indugiare in ulteriore silenzio oppure – è sporadico – esclamare: “Gaodé (o gao dé, graficamente staccato) rpeoro ditupà”. In questo caso, per quei pochi che vedessero buio, sta citando Luciano Bianciardi per bocca di un immaginario pisano. L’ospite, per sua e propria fortuna, molto raramente (uno ha estro di dire mai) è pisano, sicché, oltre a non fare una piega, ’un dice ’na spezza (vi aspettavate “’na sega”, vero? Pazzi!... pazzi!).


Il maggiordomo consegnatoci dalla mitologia cinematografica


A questo nucleo, in verità, punta il nostro viaggio al termine del paradosso del maggiordomo.
In centinaia di pellicole prodotte da Hollywood (ma anche frutto della monumentale tradizione britannica di Ealing e Rank – principalmente) eccolo qui il maggiordomo eccellente e antonomastico, il butler sanguepuro: non ci cureremo di Jeeves (sacchi s’è detto e scritto da parte della critica con il c [da immaginare] Maiuscolo, a suggestione squisitamente romantica – nel senso frainteso di “romantico”), né di mostri quali Sir John Gielgud o di più recenti aberrazioni-degenerazioni, bensì, attenendoci ai classici, noteremo che il nostro Uomo, nella norma o quantomeno per statistica, vanta un cognome al plurale (mentre il prenome gli è totalmente estraneo – non perché non abbia ricevuto il battesimo, o almeno non sempre per questa non inverosimile carenza). Egli, di volta in volta e a seconda, può chiamarsi Smithers, Stames, Jennings, Soames, Chives (plagio?), Charles, Saunders, Stevens, Stokes, Ruggles, Smethells, Hastings, Giles, Higgins e via elencando. Rarissime ma documentate le eccezioni a questo regolamento (infatti, piuttosto che regola: si sospetta un dettato alla stregua di Codice Hays): una per tutte, Belvedere (e morta qui).
 

Per proseguire questa disamina, è opportuno adottare il metodo vagamente sceneggiato, diremmo. 
Veh: poniamo che il consigliere regionale Augustus Skinbierborough (presidente Commissione pari opportunità della volpe – ma solo a caccia in atto) vada a far visita a un suo vecchio compagnone architetto, la cui moglie è inopinatamente venuta meno in una nottata di tempesta, fulmini e saette. La poveretta l’hanno trovata sgolata in letto. Impressionante. Ma niente dettagli, ché non siamo in saga.
(Le forze di legge e ordine sono già presenti sulla scena dell’ad ogni parvenza crimine, bellamente epitomizzate nella persona dell’ispettore o commissario o tenente o sia quel che sia XY. Il quale, accorto e più che postmoderno, mica perde il suo tempo a sospettare il servo domestico).
Allo scampanar dall’uscio, poniamo Soames (il nome che ci è più simpatico, non sappiamo a voi) provvede ad aprirlo, per trovarsi di fronte l’uomo politico. Il quale, a stento guardandolo il muso, gli affida in custodia cappotto e cappello (l’ultimo, poniamo, ancora, che l’abbia indosso); ma anche ombrella, questo è certo: fuori sgoccia tuttavia, pur essendosi il diluvio nella sua sostanza esaurito. Creando a bella posta un buco narrativo (che, lo sappiamo, ti mette a disagio), saltando il grave incontro con l’architetto di fresca vedovanza, nonché l’essenziale vis-à-vis col poliziotto, immaginiamo che lo Skinbierborough, nel misurare a lunghi e desolati passi l’area di prima accoglienza della cascina (ridondante di oggetti vani, alcuni brutti e altri orribili: pignatte di rame impiccate ai muri istoriati di finte teste di finte volpi – quante notti lui e l’anfitrione trascorsero insonni a discutere della questione, mai trovando – come diceva, in totale errore, il Capo Commissione – un “punto di caduta” comune. E ben due credenze), avanti indietro per via dell’ansia, e della mestizia, estragga d’un tratto un toscanello, solo per realizzare di non aver di che accenderlo. Lo previene il buon Soames con un affarino orrendo, ma efficace. Curiosamente, il benservito, in prima battuta lo ringrazia e in seconda, finalmente fermando gli occhi sulla presenza alla Vita del maggiordomo, gli chiede (“come casualmente”, scrivono gli scrittori certificati – e non possiamo che dar loro ragione, merito): “Ma lei, Smithers, mi dica un po’: da quanto tempo dipende dall’architetto?”
giacché ha l’impressione (già altre volte avuta, ma “come casualmente”) che l’individuo sia in avanti con l’età (molto, magari troppo).
La sceneggiatura indica che l’episodio si svolge nel 1989, perciò: “Ho il privilegio di prestare la mia modesta opera presso la Famiglia dell’architetto a partire dal 1946, poco dopo l’entrata in vigore della Repubblica”.
(Già mentre stilavamo questo resoconto, ci si punzecchiò: “Ma dove ha luogo questa storia? In Italia? Fattispecie Toscana? Se sì, com’è questi nomi di sapore anglosassone?” E pronti replicammo [non avendo dato bada al buco]: “Esattamente in Toscana, dove le cascine e i poderi a proprietà britannica, specie inglese, hai voglia. Si pensi allo Stingo di santo”. E pure questa era fatta).

Quella che potrebbe essere una cascina per/da architetti,
meno toscana che umbra (maleficio del dubbio).
(Illustrazione, sempre, di Stefano Baratti).
Soltanto a domanda data precisa, pertinente replica, Soames si vede costretto a sottolineare che il suo nome non è Smithers.
“Smithers… Soames… vi chiamate tutti uguali voi...” s’annoia il consigliere regionale. Ma immediatamente, casomai avesse sbagliato tono: “Oh, mi scusi, non intendevo… ma comprenda… questa disgrazia…” – “Disgrazia?” s’interroga da un angolo dove ripassava la superficie di una credenza fine fine l’investigatore – “... la tensione… la pioggia, il temporale, anzi...”
Certo che lo capiva, eccome, significa il lieve moto del capo – di Soames.
Skinbierborough, mentre che tira ed esala, straziandolo, il toscanello, intanto calcola – che non è il suo mestiere, ma s’impegna, perché vuole vederci chiaro: quanti anni avrà il maggiordomo? Mettiamo che nel 1946 ne avesse avuti…
Qui, un’altra brutta notizia: ci telefona un aiuto-sceneggiatore, un raccomandatoci, fresco di quelle accademie mica sempre utili. Ma tant’è. Osserva: “Ci sarebbe questo consigliere regionale… Della Regione Toscana?… con nome inglese pure lui?...”
Ach so, diciamo noi. In castagna netta. Va be’, poi mettiamo a posto, è solo una traccia, questa. E gli facciamo una certa impressione. Quella che, coda di paglia, suona a lui, a causa della corsia preferenziale che occupa ecc. ecc.
Skinbierborough, infine, calcola un certo numero. Rivolgendosi ancora al maggiordomo: “E in quali circostanze venne assunto?”
“Papà serviva da lunghi anni” – ma chissà lunghi quanto – “la Famiglia dell’architetto – anche mamma – quando essa risiedeva in città. La cascina venne dopo”.
“Ah, capisco… Pertanto lei...”
“Alla sua morte, di papà, lo rilevai, bontà del padre dell’architetto. Ed eccomi qui”, che anche il padre faceva l’architetto. E, ugualmente, soffrì, nel ’45, la perdita della moglie, che morì con violenza. Sgolata.
In quella particolare circostanza – benché si sospettasse dei partigiani, che però risultarono estranei – l’aftermath passò via analogo.
Quella mattina, un tale di campagna, Aspen Clevermont, possidente, si precipitò sul luogo del fattaccio, in città, accolto a palazzo dal maggiordomo Soames (padre). Col quale scambiò qualche parola. Venendo a sapere che il vecchio serviva la Famiglia dal 1909. Prima di lui, il padre suo – dal 1858. Si sarebbe potuto rimontare sin quasi al XVI secolo, scoprendo che in quegli intervalli di tempo i rispettivi figli non facevano nulla di notevole a questo mondo che va come sappiamo.
 

Siamo così in prossimità del nucleo, consistente in un semplice interrogativo-ipotesi: se – come da cinematografia – il maggiordomo che, nel frangente uguale a data XX/YY/ZZZZ, accoglie l’ospite ecc. si rivela sempre d’età sensibilmente avanzata (cioè idoneo a un meritato ritiro – retribuito, s’intende), qualora l’episodio che ce l’ha reso noto si fosse verificato, diciamo, una quindicina d’anni prima, allora, noi, avremmo allo stesso modo incontrato un uomo anziano, il quale ci avrebbe informato essere a servizio del suo padrone da un numero di anni uguale a quello dichiarato dal suo predecessore (ed eventualmente, ma anche ad un tempo, successore)?
Sinteticamente: perché nei film (insistendo su quelli dell
età dorata) non si dànno maggiordomi trentenni?

Il paradosso del nonno può anche farci un baffo.

7 commenti:

  1. perchè altrimenti non si capisce che è un film.

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    1. perchè il cinema è finzione e dallo stesso imparammo che tutti i falsari lavorano con i cliché.

      P.S. la risposta scontata era che altrimenti non si capisce che è un maggiordomo, ma, volendo essere seri, una volta tanto, non credo che basti. il fascino della figura del maggiordomo a servizio presso la stessa famiglia da generazioni, è che si immagina che sia il depositario di chissà quali segreti.

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