domenica 20 luglio 2014

Quello che è quel ramo del lago di Como

Quello che non è quello che è il lago Como, bensì
quella che è la cruna dell’ago di Garda.
(Illustrazione di Stefano Baratti).
Quello che è quel ramo del lago di – come dire... – Como, che volge – in qualche modo – a mezzogiorno, tra due – se la matematica non è un opinione – catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli che sono quelli, vien, quasi a un tratto, ad andare a ristringersi, piuttosto che a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e – come lei mi insegna – un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par – ma questa è una mia opinione personale – che renda ancor più sensibile – se possibile – all’occhio questa che è questa trasformazione, e – per così dire – segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi dopo nome di lago esattamente dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua per certi versi distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. Detto questo, la costiera, formata – diciamo – dal deposito di tre – sempre se la matematica non è un’opinione – grossi torrenti, scende appoggiata a due – né più né meno – monti contigui, l’uno – se la memoria non m’inganna – detto di san Martino, l’altro, se vogliamo, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare – in tutto e per tutto – a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano sostanzialmente a settentrione, non lo discerna tosto – senza se e senza ma –, a un tal contrassegno, in quella che è una lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome evidentemente più oscuro e di forma più comune. Al netto di tutto ciò, per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi dopo si rompe in veri e propri poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l’ossatura de’ due monti, e il lavoro dell’acque. Il lembo estremo, in qualche misura tagliato dalle foci de’ torrenti, è quasi tutto assolutamente ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali e quant’altro; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle che sono quelle terre, e che – va da sé – dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi – ad essere precisi – viene in parte ad andare a trovarsi in quello che è il lago stesso, quando – beninteso – questo ingrossa: un gran borgo al giorno d’oggi, e che s’incammina a diventar città.  
Veda... Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare – e non mi interrompa, che io non l’ho interrotta, per Dio!... –, quel borgo, francamente già considerabile, era anche un castello – questo me lo concederà –, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli – e  a parlare non un è pericoloso sovversivo –, che insegnavan – diciamo così – la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate propriamente detta, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini – e qui la questione è politica – le fatiche della vendemmia (sebbene che non glielo aveva mica ordinato il dottore). Dall’una all’altra di quelle terre, dall’alture alla riva, da un poggio all’altro, correvano, e corrono tuttavia – ci mancherebbe! –, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e – abbiate pazienza – qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi (correggetemi se mi sbaglio), ma ricchi – vivaddio! – sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda – e almeno su una cosa siamo d’accordo. Dove un pezzo, dove un altro, dove una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell’acqua; di qua – se è vero, com’è vero – lago, chiuso all’estremità piuttosto che piuttosto smarrito in un gruppo – questo ve lo concedo –, in un andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che – sia detto senza offesa – l’acqua riflette capovolti, co’ paesetti posti sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora, che va ad andare a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra’ monti che – per inciso – l’accompagnano, degradando via via, e perdendosi quasi anch’essi nell’orizzonte. Resta il fatto che, il luogo stesso da dove contemplate que’ vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte, su questo non ci piove: il monte di cui passeggiate le falde – e qui concludo –, vi svolge, al di sopra, d’intorno, le sue cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v’era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e – mi cito testualmente – “l’ameno, il domestico di quelle che sono quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell’altre vedute” e via discorrendo.
Ma voltiamo decisamente pagina.


Manzoni Alessandro, Milano, uomo, 44 yo, single, sì perditempo, no fumatori, sì viaggiare (evitando le buche con acqua). Lavarsi piedi.
Mi piace: leggere, scrivere, far di conto.
Non mi piace: il Manzoni, l’ipocrisia, la falsità, la menta piperita.
Che altro dire di me... Sono una persona solare.

1 commento:

  1. "...e su questo non ci piove" sarebbe stato il finale ideale per "la pioggia nel pineto".
    ma D'Annunzio non era Petrolini.

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