lunedì 30 dicembre 2013

Le favole senza tempo e fuori luogo di Nonna Assunta Todorov Brontolon

(Illustrazione di Stefano Baratti)
Nonna Assunta Todorov Brontolon, classe 1964, nonna precoce (ma in attesa di nipotini pur non avendo figli) e precaria ante litteram, è lo pseudonimo di Assunta P.G.R. che, a sua volta, è lo pseudonimo di un anonimo autore o autrice di favole, fiabe, racconti fantastici, surreali e irreali — nonché fuori dal tempo e dal luogo — per bambini cresciuti e/o per adulti rimasti sufficientemente bambini.
 

Priva di un degno impiego sin dal 1984, ella trascorre gran parte del suo tempo a discorrere con gli uccellini, che nutre quotidianamente e dai quali si dice ispirata.
 

Virtualmente ferma nei — è proprio il caso di dirlo — favolosi nonché fantastici anni '80 / '90 del secolo breve, ella sostiene di scrivere a matita le sue storie meta-rodariane; ma in realtà usa un computer trasparente e sospeso a mezz'aria (marca YL-kakemono — si può dire, tanto non è pubblicità: lo possiamo vedere qui ►).
 

Non è affatto una brontolona, giacché parla molto di rado; ma con lo pseudo-cognome che si ritrova, ha ritenuto spiritoso crearsi un nom de plume che richiama un'opera del celebre commediografo veneziano di cui— dato il contesto delicato ci pude fare il cognome (ma il nome è fattibile: Carlo).
 

Circa la sua situazione esistenziale, ha recentemente dichiarato: "Se le cose continuano così, dovrò accettare le insistenti proposte matrimoniali di Karl". (Karl Senter [pron. "Call Center"], un vegliardo britannico incontrato a Venezia, durante una missione umanitaria a favore dei piccioni, presso la statua del suo idolo drammaturgo: "Karl me lo ricordava", dice Nonna Assunta", "ma non certo per il cognome". Ndr).

Dice (secondo i canoni di ghiugl intelligence): "Dove posso trovare un saggio della scrittura di Nonna Assunta"?

EN CLIQUANT ICI!


domenica 15 dicembre 2013

Alfredo al fredo

Al Fredo!


Sta matina sono andato a
cumprare le sigarete.
Fuori era fredo.
Tanto fredo.
Ero al fredo.

Ero Alfredo.

Sono andato a comperare

le Màlboro. Era fredo.

Io ero al fredo.
Ma ho acquistato due bei
pacheti di sigarete.

Nonostante il fredo.

Purtropo, nel bar dove ho cumprato le sigarete,
 non c'era quela tipa che sa Marsiano.

C'era un'altra. Una ragasa.

che mi ha deto: "Buon giorno: cosa disidera?" (con la "i", proprio, di "isola").
Io le ho deto: (sempre dandoGLI dell'ei, per educassione) "Per favore, mi dà due pacheti?"

Lei fa: "Di cosa, scusi?"

E io: "Ah, che sbadato!... due pacheti di Màlboro!"

Lei me li ha dati, non prima di essersi fatta dare i soldini.

Poi sono tornato.

Dove?

A casa mia, dove

fortunatamente non c'era fredo.

Ma c'era Alfredo.

Ora, questo Alfredo, non so dove metterlo.

venerdì 13 dicembre 2013

BLOGS with dirty little lips

Blogger: inutile al mondo; contento di sciocche piccole parole incompiute, luride.

Blogger, pieno di verruche, la faccia impresentabile, divelto da chissà quale mostro parente.
 

Blog dalle labbrucce sozze, con le dita unte, sporche, verdi come le rane che mangi la mattina per colazione;
blobber, blogger pieno di brutte intenzioni, cattivo, piccolo, pieno di risentimento, figlio di sozza.
 

Blog, gonfio per la peste del cane nell’anno della peste.
 

Blogger, con il naso gonfio, le narici sgocciolanti muco, la lingua gonfia, impestata di mosche.
Mannaggia all’infame blogger che si nutre di mosche, la lingua rotta. In quel tuo blog, isolato, odori mensili.
 

Mi viene in mente la grande peste di Londra descritta da Defoe: non era niente in confronto a te, che possiedi un blog with dirty little lips.
Occhietti malati. Sporchi cisposi.
 

Vivi di blog.
 

Vivi di frogs with dirty little lips.
 

Mangia rane. (Sporche).
Rane col naso sporco.
Rane con le zampine sporche.
 

Tutto quello che accade nella tua vita
è mangiare rane.
 

(Al tramontar del sole – si badi bene.)



CORRELATI
FROGS 1

FROGS 2

lunedì 9 dicembre 2013

Punti cardinali · L’uomo che venne da lontano e andò ben oltre

L’ Uomo che venne da lontano
in un singolare schizzo. La testa, apparentemente assente,
è un semplice effetto trompe l’oeil

In tempi non sospetti (ché avevano ampiamente dimostrato la loro estraneità a se stessi c/o chi di dovere), noi froggers (with dirty little lips), come accade a caratteri con calibro dell’apocalittico Giovanni(n) (Senza Paura punta) ma soprattutto dell’entità di Nostradamus, Menagramus, Isacco Giacobbo e innumerevoli oltre-uomini di profezia, fummo punti da una benché non cercata vaghezza in virtù della quale ci trovammo, un bel giorno, a tener compagnia e botto alla schiera degli aruspici, in testa ai quali saremmo inclini a installare il felino Malachia, che nei suoi celeberrimi quanto criptici 111 motti espose visioni fatali di papi e anti-papi (si badi – detto divagando alquanto – che è uno dei pochi affari degli ultimi quattro e oltre secoli in cui non ha parte alcuna l’Uomo dell’ultimo dì mercedonio), con abbraccio che si estendeva dal pontificato del Celestino II fino a quelli compresi nella Fine dei Tempi, ci pare di capire. E qui cominciamo bene: non siamo pratici di cose astrofisiche (vedete: manco abbiamo la certezza che si tratti di cose astrofisiche), ma ammettendo e concedendo (tutto, fino a restare ignudi) una visione allucinata e prosaicamente impensabile dalla mente umana come lo spazio entro il quale si collocherebbe un evento Finale irreversibile – che, in turno, si supporrebbe non scindibile dall’influenza dal Tempo, in un’in(de)terminabile complicità dei Due – possa, dopo tanta catastrofe, essere ancora popolata di papi e anti-papi che se ne stanno in giro pontificando quasi niente fosse, e con l’aggravio dell’esposizione visionaria di Malachia – cui purtuttavia confermiamo la nostra stima e rispetto riconoscendone la buona fede –, ci rimane nondimeno ostico l’allineamento con un vaticinio che disimpegna l’istituto del papato dalla sua suprema funzione temporale (cioè politica). In sintesi: esiliato a regnare sul nulla, un pontefice perde un’alta percentuale del suo smalto e pertanto non è meritevole (o passibile) di ludibrio astrologico.

Comunque sia, a quegli scagionati tempi, si partorì anche noi una visione, alla Borges (ci si condoni l’accostamento: non sarà difficile in quest’epoca di passioni), piuttosto che alla Malachia – per giunta con ritaglio polemico, obiettivo il Márquez; ma nell’innocente forma di una stoccatina – sotto specie scritta, tradizionalmente – e convenientemente – specificata dal termine “racconto”, composto di un certo numero di motti (“mots”), indubbiamente maggiori di 111, magari anche criptici, ma privi di drammatiche valenze numerologiche. Nel quale, sbrigliata da ogni regola di contingente verisimiglianza, dominava la figura (“surreale” – suole puntualizzare chi col surreale mostra familiarità non inferiore alla tua con tuo cugino o tuo tsio) di un papa che si volle sudamericano.
Senza dettagliare da quale fra i Paesi dell’America meridionale egli originasse (pare in tutto uno di quegli accorgimenti in smaliziata adozione presso i pronosticanti di cui in alto, del genere – volgarmente ma efficacemente detto – “mettere le mani avanti”), ma dandogli un nome e un cognome (anzi che, in modi inauditi, montasse al soglio predestinato) con vaga eco di significante precolombiano, ossia Gutierro de Utziqui; chi avesse letto quel conto, sarebbe inoltre stato informato circa l’estrazione “campesina” del cardinale – a voler essere onesti e più realistici dei realisti, il “de” striderebbe con i modesti cognomi di quel ceto, che, poco abbiente, non potrebbe nella più immaginifica e nervosa delle fantasie concedersi (tantomeno se ne insognerebbe) l’acquisto di un predicato signorile. Ma il punto non è dolente fino all’irreparabile.
Sicché (questo accadeva intorno – quando non dentro – l’anno 2001 o forse 2), dopo lunghe (otto, o sette, ma sempre anni!) revisioni e meticolosi, cauti eppure rigorosi colpi di lima, finché sopraffatti da quell’urgenza che è combinazione di vanità (ecco – pressappoco – una spiegazione all’usanza che, se qui da Noi va indisturbata sotto la sigla APS, nel mondo anglosassone, senza tanti sotterfugi acronimici, è ostensibilmente, malignamente etichettata “vanity press”, e nell’Oltralpe designata da un serioso quanto esplicito “édition à compte d’auteur”) e timore di veder la storia del cardinale andare a male come (e dove) vanno certe vivande, giunse la risoluzione – conseguenza di cortesi declinazioni editoriali a dozzine – di rendere tuttavia pubblica (ma lo era già stata, sull’internèt, senza che la nostra e altre vite ne venissero scalfite) quella storia-profezia, rifilata ad un florilegio di novelline eccentriche assemblate sotto il titolo onnicomprensivo di Remakes (Cigoli) – proprio con quelle parentesi: non ne era, il contenuto, inteso a sottotitolo (perché si scelse quel titolo, qui non lo stiamo a documentare).
L’anno 2009, dunque, eccolo l’APS autoredatto vedere la luce, che negli anni a venire, gradualmente infiochendosi, infine si spense – ma per nostro lucido calcolo, a seguito di questa valutazione: un libro (di carta) che in quattro anni stabilisce un record planetario (tanto si sa…) per molti versi ignominioso, e che pochi – dal 1455 a oggi – possono vantare, tanto da tentarne il detentore di proporsi alla Guinness (non in quanto birra), va dolcemente soppresso, o deve almeno subire un certo qual cambiamento di connotati. Ora, la trista antologia viaggia sotto mutato titolo – sperduta come un novello Major Tom ma senza potersi appellare all’illusorio conforto di un Ground Control – di raggio in raggio della grande e selettiva Tela sub specie electronica. E lì rimanga, che un pochetto ci ha stancati.



Tornando dall’inevitabile digressione al nostro punto, ebbene: l’Utziqui (o de Utziqui) – sempre in quell’immaginazione – conseguiva il primato nella Sede di Pietro con peripezie le più difficilmente prefigurabili e con criteri nettamente illeciti (e illegali), benché il preteso effetto della brevissima novella fosse quello di evidenziare, per una serie di accadimenti compressi, come il porporato sudamericano (divenuto, piuttosto che eletto papa) introducesse una sia pur effimera rivoluzione nei costumi vaticani. Non c’è traccia di giudizi di alcun genere, né di merito etico né – per così dire, come dire, vogliamo dire – religioso o (ce se ne scampi!) di sfera “teologica”.
Ma quanti (certamente non troppi) volessero sapere di che cosa stiamo parlando, troveranno senz’altro il modo di leggere lo scampolo narrativo in questione.
Qui, viceversa, vogliamo soffermarci su ciò che esso trascura relativamente alla sorte patita da due cardinali concorrenti alla Cattedra pontificia.


Par di tornare alle cruente leggende borgiastiche, questo è vero (ma si legga il racconto, si legga pure – stranamente intitolato Settembre!, con esclamazione funzionale), tuttavia il Gutierro, agendo con quell’imprevedibile estro suramerico “su cui ci ha sempre tenuti informati Márquez con bilioni di pagine” (questa, citando, la “stoccatina”), combinò un finimondo, quel giorno (di settembre…), allorché ripulì la piazza dai competitori, del tutto dimentico di cosa fosse la pietà. Il resoconto parla chiaro.

Ora, ciò che in quello scritto si sottace fu la fine orrenda riservata dal papa “eletto” a due cardinali in particolare, usando di un metodo trascurato (curioso!) persino dalle più fervide menti dell’Inquisizione. A un certo punto, si fa cenno, nella fantasiosa cronaca, al “disavanzo totale di uomini color della porpora”, palese falsificazione della falsificazione (tanto è il racconto Settembre!), dacché due di essi – il nome? e chi (se) lo ricorda… – scamparono lì per lì alla furia di “Utziqui all’iniziativa” (cit.), trovando ricovero in chissà quale sgabuzzino remoto, ma senza farla franca. Nel momento in cui il neovicario massimo – benché a dure faccende obbligato – si prese una pausa per due conti che però non gli tornavano e non tornandogli fu bensì in grado di associarli a due nomi, con inumana prontezza di spirito decise di affidare la soluzione del caso a suoi fidati vicari sicari che lo avevano seguito in Roma dalle campesine terre avite.

Si sa di papi che, nei rari momenti di libertà dai loro oneri, si dedicano ad attività le più svariate per ritemprare lo spirito e la mente (“hobby”, “svago”, “distrazione”), nonostante la carenza di una seria letteratura in proposito (prevalendo la tendenza gossipara di taluni pseudostorici ovvero vaticanisti di non eccelsa lega, i quali – perdonate la franchezza – ci hanno riempito le tasche con obsolete, presunte indiscrezioni sulle manie, più che passatempi o diversivi, dei pontefici – il filone Borgia è inesauribile, insomma). Utziqui, ai tempi della giovinezza contadina in patria, studiò con entusiasmo l’apicoltura: ne fu, si dice, un pioniere nella plaga agricola d’oltreoceano, ne fu divulgatore e le diede impulso con giovamento per la povera economia locale, e della dedizione venne ripagato in termini di apprezzamento generale dei campesinos.
Così, quando fu il momento di traversare l’oceano per la prima venuta in Roma, non poté rinunciare a farsi accompagnare dagli insetti e dai di loro favi, che assegnò in custodia temporanea a un esperto e fidato apicoltore vaticano (in realtà, giardiniere). Poi, intensificandosi la sua attività nello Stato interno alla città, dovendosi là trattenere con sempre maggiore frequenza e per periodi sempre più lunghi, ebbe modo di dedicare più tempo (quello d’avanzo, resta inteso) alla cura delle creature. Delle api, della loro vita e abitudini conoscendo pressoché ogni segreto, Utziqui prese a concepire un disegno, parzialmente oscuro persino a lui stesso, in quanto ispiratogli da una teoria che necessitava d’un riscontro pratico. Passò notti insonni tra i favi, tra le arnie, biancovestito (ah… un presagio?) di tuta e maschera-velo protettivi, negligente alcune sue incombenze, tra cui la preghiera, o consacrandovi (no pun intended) attimi appena. Probabilmente senza esserne del tutto consapevole, il cardinale andava elaborando uno schema scientifico sui cui esiti non aveva certezze ultime, sebbene il suo inconfessato (n.p.i) obiettivo fosse la Creazione di un organismo geneticamente modificato, una Superape o Ultra-ape. L’intenzione di fondo era lodevole (non ci dilungheremo su, anzi non sfioreremo nemmeno questioni attinenti alla dottrina sociale della Chiesa in merito agli OGM, con il rischio di smarrirci nei da noi impraticabili meandri dove si dibatte di moralità – intrinseca ed estrinseca – della manipolazione genetica. E mica ce ne intendiamo granché). Egli vagheggiava la generazione di un’ape mellifera capace di produzioni più ingenti e più sofisticate ad un tempo, a puro ed esclusivo beneficio dell’Umanità. Ma non è improbabile che Utziqui fosse visitato dal dubbio, il quale – ora sappiamo – ebbe la peggio sotto l’attacco dell’anelito scientifico.


Saltiamo le genotecniche nello specifico impiegate dal Gutierro – che restano comunque secretate. Saltiamo i tempi di gestazione. Saltiamo le modalità riproduttive dalle api (diversamente dovremmo portare quei noiosi, ipocriti esempi con cui regina e fuchi cercano di spiegare alla prole come essa venga alla vita, cioè facendo imbarazzato e metaforico riferimento alla trafila seguita dal genere umano per generare i bambini).
Finalmente un giorno, un bel giorno (non è luogo comune), vide la stupefacente nidiata e udì l’insistente ronzio di alcune Superapi (o Ultra-api). Dei fenomeni nunzi del tanto atteso evento, il giardiniere corse a informare il cardinal Utziqui – preso altrove dai suoi consueti doveri.
In preda a un’eccitazione che chi vuole può comprendere, egli raggiunse il fantascientifico alveare, senza trattenere le lacrime come gli occhi caddero su una neonata che avrebbe conservato un posto di privilegio negli affetti del futuro pontefice. L’incredibile è che – sarebbe parso “per uno di quei portenti alla sudamericana” (cit.) – proprio quel Superessere avrebbe ricoperto un ruolo fatale nell’episodio che ebbe per vittime i due cardinali riparati nello sgabuzzino.
La prediletta ricevette un immediato e nemmeno troppo sofferto battesimo informale: fu chiamata decisamente Ape Papale. (Questa, ci viene da osservare, più che una forma di presagio, ha invece traccia del supposto peccato di presunzione, pur non essendo ancora un Vizio Capitale). Nessuna fonte a noi disponibile precisa se le sorelle ricevessero anch’esse un nome vero e proprio (nel senso proprio di “proprio”, non in quello, abusato, in questa locuzione, dalla stragrande maggioranza delle genti, specie [tele]giornalistiche, allorché – per istanza – copulandolo con “vero”, pretenderebbero, vanamente, di corroborare la forza di un dato sostantivo, col risultato di una resa ridondante quale “un vero e proprio nubifragio” – quasi esistessero tipi di nubifragi “falsi e impropri”. Noi, qui, la s’è usata, la locuzione, per un’estemporanea polemicuccia fra le parentesi, non per aprire [entro queste, magari, ormai occupate] una polemica “vera e propria”).


Ape Papale al culmine del suo fulgore guerriero.
Sull’aluccia è posibile notare
il tipico gallone di
Generale di Brigata per Superapi.
Erano uno splendore, che nei pochi giorni seguenti andò magnificandosi: e nell’aspetto e (soprattutto) e nelle dimensioni, indubbiamente abnormi. In incessante lavorìo, si sviluppavano, giorno dopo giorno, secondo il dettato di Natura e sotto le attenzioni di Gutierro e del giardiniere; attenzioni che però, in capo a poco più d’una settimana circa, si trasformarono in cure, ma nel loro senso etimologico più proprio (e vero) cioè preoccupazioni, quando le proporzioni degli insetti, insieme ad altre manifestazioni fisiologiche – il ronzio tendente alla distorsione (si immagini una di quelle chitarre di cui si dotano gli esecutori del metallo pesante), un’insolita irrequietezza nel volo che man mano si traduceva in evoluzioni audaci e fendenti l’aria con segni di aggressività, la riluttanza a far avvicinare più d’un tanto il giardiniere, ma non era ancora tempo di miele  – sembrarono aver ormai sfidato la Natura essendone sfuggite al controllo e non rispondendo alle Sue direttive.

Passò qualche giorno ancora (e in quel frattempo – qualcosa subodorando – il cardinale aveva cautelativamente suggerito al suo assistente di non frequentare il luogo delle arnie), dopo di che Utziqui fu sensibilmente turbato alla scoperta di un ormai certo scherzo applicato da Natura alle sue creature. Parliamo, per l’esattezza, proprio di Ape Papale, monarca assoluta delle api consorelle – ne aveva ogni evidenza – nella quale il cardinale riscontrò un pungiglione di misura – sempre in proporzione col resto della struttura fisica – non ordinaria. È indispensabile sapere una cosa: l’ape pupilla, benché caratterizzandosi come le altre per quei fenomeni sopra accennati, li cessava nel momento del contatto ravvicinato alquanto con il suo cultore, e licenziando gli apparenti comportamenti aggressivi e forse ostili (imitata dalla famiglia), si concedeva ai suoi affetti come la più mansueta delle creature. Perciò, il cardinale poté esaminarla da una distanza minima, verificare la straordinarietà di quell’aculeo e chiedersi infine se il dardo – data l’anomalia – fosse più che un organo strutturale. Per tale accertamento, sarebbe stata naturalmente necessaria una sperimentazione, con conseguente morte della bestiola. Non era questo che Utziqui voleva.
Ma ancora “per uno di quei portenti…”, come ad averne inteso il pensiero, Ape Papale, subitanea Mrs. Hyde, emise un ronzio Kirk Hammett al top, vibrò le ali (pareva un caccia allertato con breve se non nullo preavviso) e si sollevò in ultrasonico volo, che, tempo millisecondi, rivelò avere un preciso bersaglio: il gatto (non papale e nemmeno cardinalizio, forse un semplice randagio infiltratosi chissà in che modo nella sorvegliatissima area vaticana) assunse, su quattro piedi, un’aria interdetta – interlocutoria, sarebbe meglio dire – come sorpreso dalla stessa sorpresa di quell’inatteso attacco. Le quattro zampe montate su quei piedini facendogli otto giacomi, lo sguardo da Stregatto sbronzo e miagolando “me sento tutto strano”, la vittima, barcollante, riguadagnò la misteriosa via che l’aveva lì condotto per dirigersi istintivamente verso il Cimitero dei Gatti – ché la sua inesorabile Ora gli suonava scoccatura – situato, dicono, in un probabile recesso del Colosseo, dove, fra sofferenze da non dire, trovò requie (per un verso immeritata e per un recto meritata) in capo a un paio di mezz’ore.

E intanto, l’Ape ad ogni parvenza giacendo di quel giacere irreversibile cui sono destinate le api dopo la loro tipica malefatta, il cardinale tornato a sé dallo stordimento si affrettò a verificare la situazione, che giudicava tragica. Ignorando se fosse in qualche insperato modo rimediabile, ebbe mille bizzarri pensieri, fra cui l’applicazione della respirazione artificiale al devastato insetto. Ma quell’apparato boccale era una sfida impossibile – ben lo sapeva Utziqui. Soccorso presso terzi (e di quale natura, poi?) non l’avrebbe trovato. Tutto faceva mal disperare.
In casi simili – non serve essere cardinale per saperlo – rimane poco da fare, se la preghiera all’Altissimo vi pare poco. A ciò si accinse il prelato, ché – non si può mai dire, pensò sopra le righe – forse il suo implorare avrebbe trovato ascolto. In tanta confusione non individuando la preghiera del caso – e una a misura di frangente in verità non esisteva –, si provò a raffazzonarne un’altra di sua ideazione, le idee però vieppiù confuse. In prossimità di un bel fulminante “finalmente”, tuttavia, ecco che la disgraziata (più avanti il cardinale avrebbe attribuito all’Onnipotente quella facoltà che viceversa è esclusiva – come non ci stancheremmo di sottolineare se ci venisse chiesto di farlo – della malachiaca, nostradamica nonché isacco-giacobbica compagnia), col fremere debolmente, diede uno di quei segni caratteristici degli esseri in vita. Solo allora il suo cultore-tutore proruppe in pianto e fece a premurarsi di quale premura che fosse; ma non fu necessario: Ape Papale – erano trascorsi due minuti… Ma neanche… – era più arzilla, più bella e più superba che pria. (“Bravo”. “Grazie”. – si sarebbe udito provenire, come rapido scambio di battute fra vecchi compagnoni, rispettivamente da sotto e da sopra il cielo di Roma [quasi cit., ma vedi]).
Utziqui non tardò ad aggiungere nuova conclusione (sospettando che non fosse l’ultima) alle tante già accumulate: Ape Papale, e le consorelle sue, si distinguevano dalle altre al mondo note per un’ennesima meraviglia più o meno naturale: sopravvivevano alla loro comunemente segnata sorte, e, chissà, non è da escludersi che serbassero altre qualità nascoste. “E se fossero state immortali?” non ebbe il tempo di pensare Utziqui...


domenica 8 dicembre 2013

L’inglese, una lingua affascinante: come, dove, quando, perché impararla

 Seconda lezione

Salve amici e Bentornati (Benvenuti se è la vostra prima volta o se siete Nino) alle lezioni di inglese impartite da questo blog with dirty little lips del tutto a gratis.

Oggi, 8 dicembre 2013, giornata di alta valenza religiosa e storica (finalmente vedremo se Togliatti sarà confermato o meno alla guida della sua fazione politica, nonostante le insidie poste da Pajetta [inglese americano “brillo”, ma anche Giancarlo pare non scherzasse col Barolo], da Pippo, da Orazio Cavezza e least but not last, Filo Sganga – quinto incomodo ignoto ai più), nonché compleanno di un mio amico di infanzia (“infantry”), per il quale non ho un link, e di Teri Hatcher, già Premier britannica (nota come “ledi de fero” e verosimilmente non del tutto immacolata, la Teri con una ere) e già moglie disperata di Superman (inglese: Nembo Kid).

 
In questa seconda lezione di lingua inglese (in inglese, “lingua inglese” si dice: “Don’t speak like you eat”) ci soffermeremo su alcuni argomenti riguardanti: la pronuncia dell’inglese (in inglese: “Speak like you eat, please”, che, come avrete già notato, è molto simile alla frase precedente, basta aggiungere “please”); la civiltà inglese (“We Are the Champions”, che si pronuncia – caso molto raro – come è scritto); le regole della buona educazione (“Rulers of Good Education”) e tanto altro ancora – dipende dalla nostra chiavetta di connessione, che mi pare sta scadendo la tariffa.



Un po’ di notizie storiche sulla lingua inglese

L’inglese è una lingua germanica che, ciononostante, non si parla in Germania, se non in qualche enclave come le basi NATO (vi spiegheremo più avanti che cosa sono queste basi, sennò andiamo fuori argomento, “out of argument”, in lingua inglese).
 

L’inglese, come lingua, è nato intorno ai primi anni ’60 del XX secolo (in inglese “secolo” si dice “belt” e si pronuncia “century”, con l’accento sulla “e” di Empoli, che è la città di Em), in Germania (in tedesco: Deutschland, che in inglese non è traducibile), precisamente ad Amburgo (in tedesco: Hamburg; in inglese è intraducibile. In italiano – per inciso – si dice “Homburg”, che in tedesco o in italiano, significa “L’ora dell’amore”).
La nostra attuale civiltà europea ha profonde radici in Germania: basti pensare al famoso uomo di Neanderthal, nato appunto a Neanderthal (che però al tempo era sotto l’Austria) intorno al 20 aprile 1889.
 

Come l’uomo di Neanderthal, anche la lingua inglese nacque in una caverna, ma ad Amburgo – che tuttavia, per essere precisi, all’epoca era sotto l’Inghilterra e, per l’esattezza, sotto la provincia di Liverpool, che in inglese o in italiano significa “buco nel fegato”… curioso, no? Mah, cosa volete… è un caso di umorismo inglese (in inglese umorismo si dice “whatssofunny”), di cui gli inglesi e i britannici in genere sono molto esperti.
Già che ci siamo, vi raccontiamo un breve aneddoto sul perché di questo buffo nome. Tanti e tanti anni fa, pur non essendo ancora uomini di Neanderthal, nell’era geologica del Cervogiatico (così chiamata perché in Inghilterra – che non si chiamava ancora Inghilterra, ma bensì non si chiamava niente – c’erano tanti cervi, a cui i Lord inglesi davano la caccia non perché avessero fame, ma perché poi appendevano la testa dei cervi nelle caverne) questi uomini rozzi ma intelligenti inventarono due bevande importanti, che ben presto soppiantarono l’acqua (una cosa ritenuta grezza e primitiva): la birra (in inglese antico “cerveza”, che si legge “beer” e si pronuncia “bir”… che strano, vero?… Eh, ne vedremo di stranezze con i nostri amici inglesi) e il whisky (sempre in inglese antico “berbon”, o “berben”, secondo una seconda variante).
Queste bevande furono per l’appunto inventate e scoperte a Liverpool, e ben presto tutti i suoi abitanti si dedicarono indefessamente alla loro assunzione, finché, un bel giorno, cominciarono a sentire dei dolorini sul fianco destro, all’altezza più o meno del fegato. Lì per lì pensavano che magari si erano affaticati troppo nella caccia al cervo; e perciò si dedicarono a cacciare la volpe (in inglese: “poor wretch”, che si pronuncia “focks”). Ma la caccia alla volpe non ebbe effetti positivi sul fisico degli inglesi di Liverpool. I quali perciò si fecero fare le analisi del sangue, venendo a scoprire di non avere più sangue e soprattutto di avere un tale buco nel fegato che al posto del fegato c’era solo un buco, in mezzo al quale, in teoria, ci doveva stare il fegato, che però non c’era.
Lord di Liverpool durante una battuta di caccia alla volpe
a orso (horse) del suo cavallo

 

Nell’arco di circa una settimana (in lingua inglese “week-end”), tutti gli abitanti di Liverpool si estinsero, tranne cinque di essi, che fuggirono nel continente (in inglese “Bleah”) e, dopo un’aspra campagna militare, si impadronirono di Amburgo. Durante un’aspra battaglia, uno di questi cinque arditi rimase purtroppo ucciso, e quindi ne rimasero 4 (in inglese: “and then there were four”, che – caso strano – si pronuncia come è scritto).
Siccome questi 4 signori (in inglese “sirs”, pronuncia “sahs”, ma senza far sentire la “h” di… di… “accademia”, ecco) non capivano il germanico tedesco, decisero di inventare una lingua piuttosto strana, e vi spieghiamo perché: innanzitutto la lingua non si chiamava inglese, ma “Shelovesyouyeahyeahyeah”, una parola molto lunga e difficile da pronunciare (ne parleremo in un’altra lezione incentrata sulle parole difficili da pronunciare, tipo “datsamorey”) e in secondo luogo non era un lingua parlata ma cantata con le rime affinché fosse più facile ricordarla. Infatti, inizialmente la lingua era solo parlata, e i tedeschi germanici sottomessi alla provincia di Liverpool, imparavano sì qualche parolina, ma la mattina dopo puntualmente si dimenticavano tutto e, anziché andare a lavorare, passavano ore davanti al piatto di salsicce e crauti (prima colazione, in inglese “are you kidding?”) grattandosi la testa in segno di sconcerto.
Poiché l’economia già cominciava a risentire di questo assenteismo e ciò avrebbe potuto comportare l’uscita dall’euro – che all’epoca non esisteva, ma, come tutti sanno, i tedeschi germanici ne sanno una più di Isacco Giacobbo – e per giunta dalla porta di servizio, uno di questi 4 “sahs”, che si chiamava Paul von Papiertney, ebbe una trovata geniale, e cioè quella della lingua cantata.
 

L’economia tedesca della Germania ne ebbe un giovamento immediato e tutti i lavoratori, anziché grattarsi la testa e ingozzarsi di würstel (o salsicce di Vienna, ché, di fatto, venivano importate dall’Austria), tornarono a lavorare nelle fabbriche (inglese “fabrics”), nelle fattorie (inglese “stuffs” – quasi un’onomatopea, giacché, verso le 16.05, i lavoratori in genere non ne possono più), negli uffici (in inglese “suite”, plurale “suites” – come vedremo più avanti, in inglese, per fare il plurale, basta aggiungere una “s” di scampoli, la città degli scampi; ecco un esempio: “information” – che in inglese significa “conoscenza” – plurale: “information”, che significa informazioni… un po’ complicato?… Abbiate pazienza, non scoraggiatevi… Vedrete che con un po’ di impegno, capirete la differenza fra queste due parole che sono la stessa parola), nelle occhialerie Carl Zeiss di Jena (in inglese “reservoir dog”) e in tutti i posti di lavoro (in inglese “dungeon”) in genere. Anzi. L’impulso fu tale, che furono impiantate su tutto il territorio germanico fabbriche (vi ricordate come si dice “fabbrica” in inglese? O ve lo siete già dimenticati?… ahi ahi ahi… dobbiamo cantarvelo?… Purtroppo non ci sono canzoni sulle fabbriche, a parte quella di Jannacci, che però era milanese, e noi siamo qui per imparare tutti insieme l'inglese) per la lavorazione delle salsicce autonome e fattorie (vi ricordate come si dice “fattoria” in lingua inglese? O ve lo siete già dimenticati?… ahi ahi ahi… dobbiamo cantarvelo?… E va bene:
 

Old MacDonald had a factory, ee i ee i oh!… ecc.

contenti? Non ve lo dimenticherete più? Promesso? Mah, staremo a vedere…), fattorie, dicevamo, per la lavorazione dei suini, in inglese “swine”, mentre “wine” significa suino. Incidentalmente, in inglese, per fare il singolare di una parola, basta togliere la “s” di rosa (togliendo prima alla rosa la “r”, la “o” e la “a” di Acropoli, la città acre) iniziale.

Alcuni esempi: “swing” = “jazz”, mentre “wing” = tanti jazz; “sister” = “sorelle”, mentre “ister”… non esister! Ah ah ci siete caduti, eh? Che volete, un po’ di umorismo inglese ogni tanto ci vuole, ci… ah ha… Comunque, scherzi a parte (“a parte” in inglese si dice quasi come in italiano, siete fortunati: “a part”, basta aggiungere la “e”, sempre di Empoli, badate bene; così, ci sono tante parole che facilitano l’apprendimento della lingua inglese, perché basta togliere la “e” della corrispondente parola italiana.
Alcuni esempi, a parte “a part”: “cane”, in inglese “can” [da cui il celebre motto degli accalappiacani britannici “Yes, I can”]; “pane”, in inglese “pan”, che però significa “tutto”. Altre parole sono addirittura uguali sia in italiano che in inglese. Un esempio: inglese “dove”, italiano “ispettore Colombo”; oppure italiano “lane”, inglese “lane”, che significa “corsia di un ospedale” (corsia di un’autostrada, viceversa, si dice “autolane”). E potremmo, se ci venisse chiesto, continuare con miliardi di esempi. Beh, certo, c’è una sfumatura di significato un po’ diversa, ma quello che a noi preme è il significante.

Bisogna poi fare attenzione ai cosiddetti “falsi amici” (in inglese semplicemente: “friends”). Molti termini della lingua inglese hanno un suono simile ad altri della lingua italiana, e perciò si corre il rischio di commettere errori imperdonabili, che poi gli inglesi vi ridono dietro per mesi e mesi (sempre a causa di quel loro senso dell'umorismo). Quindi attenzione a parole falsi-amici come:

telephone, che non significa “telefono” ma “te ne parlerò al telefono” (te le phone);

lamp, che non significa lampada, ma lampo (anche nel senso di “chiusura lampo”);

cabinet, che non significa “armadietto”, ma “io cesso”;

bell, che non significa “campana”, bensì “bello” – o “bella” (anche nel senso latino di “guerre”);

copyright, che, diversamente da quanto molti credono, non significa “diritti d’autore”, ma “copia bene!”, un’esortazione che sogliono scambiarsi gli scolari e studenti inglesi prima di un compito in classe. Ma voi, per carità, non seguite questo cattivo esempio: copywrong!, è il nostro consiglio, cioè “copiate sbagliato”, così vi bocceranno per anni e anni e non dovrete mai andare a lavorare.

fig, che molti – erroneamente – sono convinti significhi “fico” (frutto e pianta), mentre in realtà significa proprio quella cosa là.

cool, che, badate bene, in inglese non significa “fresco”, “fico” (non nel senso di frutto e pianta) ecc., ma traduce semplicemente il nostro verbo “sedere”. Una tipica frase di cortesia che fareste bene a tenere a mente è “Won’t you cool (down)?”, vale a dire “Prego, siediti (per terra)”.

E potremmo continuare con trilioni di esempi.
Due studenti britannici (il copiato
somiglia un po' a Severgnini, no?)
in un momento di copy-right-ing-lish.


D’altro canto potete andare tranquilli con parole che sembrano “falsi amici”, ma sono amici veri (in inglese “cheaters”, singolare “tarzan”). Ecco alcuni esempi (riguardanti soprattutto il mondo animale):

horse (andate tranquilli) significa “orso”, e non, come molti credono, “cavallo”;

ape (anche qui, tranquilli) in inglese (o in italiano) vuol dire “ape, vespa”, e non “scimmia” (che in inglese si dice “bee” o “wasp”, a seconda);

ostrich, fate attenzione, significa “ostrica” e non – credenza alquanto diffusa – struzzo;

cod, in inglese (o in italiano) vuole dire genericamente “coda”, altroché, come molti vorrebbero, “merluzzo”; merluzzo, in inglese, si dice “little blackbird”;

leper, va da sé, traduce l’italiano “lepre” – e a quelli che vi dicono che significa “lebbra”, mandateli a quel paese (“lebbra” in inglese si dice “the drunk woman”);

paper (ma qui siamo nel campo dello scontato [“discounted”, in inglese]) non vuol dire carta (che si dice “cart”) ma anatra;

roach significa “roccia” – e non scarafaggio, che si dice “rolling stone” (si veda anche, se non lo si è già visto, il celebre film noir The Spade in the Roach, che ha per protagonista Humphrey Bogart nella parte di Sam Spade, il celebre detective creato da Dashiell Hammett [Hammett = “marelo”]).

E potremmo continuare per anni e anni e anni, ma la spia della chiavetta ci sta avvisando che sta scadendo il tempo di connessione. Purtroppo oggi non siamo riusciti a trattare l’argomento della regole della buona educazione, ma sarà per la prossima volta (“next vault”: è lì che teniamo i nostri preziosi argomenti).
 

Forse abbiamo anche un po’ divagato, ma – ammettetelo – adesso ne sapete qualcosa di più sulla storia della lingua inglese. Non avreste mai immaginato che fosse così ricca di sfumature ignote ai più ma anche ai meno, dite la verità…

Continuate a mandarci le vostre letterine piene di quegli allegati di cartasì e di trojani vari (ne riceviamo a bizzeffe ogni giorno, tanto che da quando abbiamo aperto questa rubrica ci è toccato riformattare fra le 6 e 7 volte) e tornate a trovarci presto (avete messo il bookmark?), che noi saremo sempre qui, sempre a gratis, per accompagnarvi nell’affascinante viaggio nella lingua e civiltà britanniche
.


CORRELATIPrima lezione di inglese di questo blog with dirty little lips ►

Illustrazioni di Stefano Baratti.

giovedì 5 dicembre 2013

Sofa #n · La donna che diceva "Io sono" a tutti

I am she who adorn’d herself and folded her hair expectantly

"I can't stand the way she pouts!,
('cos she might not be pouting for me)"


di Romana Belliache


Sono Romana, sono romana, sono poutrice. Sono romena? sono Ramona? sono Romina? Sono Power. Sono to the people. Sono Teresa mica. Sono mica nata ieri.

Sono ’a chitara. Sono la selva oscura. Io sono il cielo. Io sono le rotelle sotto i tuoi pattini a rotelle. Io sono le nuvole. (E anche il burro. Sono l’antidoto al burro, anche). Io sono la pioggia su cui non ci piove sopra. Sono circolare. Sono la cerchia. (Sono il cerchio. Sono la botta). Sono l’autrice di ogni cerchione e di ogni bordura di damasco e pashmina. Sono ricamata. Sono diplomata. In arte del pouting. Sono il pouting. (“You pout, you pout”, said Laverdure).
 

Sono il pouting ma non pouto per te. Io sono il dramma delle poutrici contemporanee. Sono il pouting che fa outing e si diffonde in maniera ipostatica sotto la mia fronte. Sono il pouting apostatico, ergo (el murtadd!). Io sono ergo.

Io sono i vitelli. Sono dei romani. Sono belli (che la morte li fa). Sono Belli (che li mortacci sui possano averne bene). Sono colei che sono. Sono coesistente a me.

Io sono la Creazione. Sono l’endorfina della Creazione. Sono la creatura. Sono la scrittura. Sono la lettura. Io sono letta. Sono la dirittura. (Io sono
’a dirittura). Sono l’arrivo prima della partenza. Sono un punto. Sono due punti: sono una vista. Sono due viste. Io sono il mio vedere. Io sono la forza del destino sociale. Sono il verbo caro fatti alle finestre.
Io sono la Storia sono Io.
Sono il piacere che ma mi faccia lei. Sono la terrazza sulla bellezza. Sono il dolore che la bellezza conosce.


Io sono il tempo della mia auge. Io sono la mia attenzione. Io sono permeata. Io sono la contaminazione. Sono Renza. Sono Lùcia. Sono Enrico Totti. Sono la Roma leggermente svanita. Sono Virginia Zombie Woof. Sono “chi ha paura di me?”.
Sono Matteo secondo me. Sono Luca, ma non secondo me. Sono Giovanni, secondo solo a me. Sono Giovanni II. Sono Giovanna d’Arquette. Io sono i macelli.


Io sono il noto sociologo Marshall McLuhan. (Io sono, io noto, io annoto, io annotto). Io sono la medium. Io sono il messaggio. Sono il massaggio galore. Io sono Orfeo, che ebbe in dono da Apollo un euro – dice.
 

Io sono tutti i giorni, tutte le notti, tutti i berti. Io sono la “A”, maledizione della sinistra alla destra del 6 gennaio.

Sono la gatta sul tetto che scatta.
Ich bin Eier aller Arten. (E il burro, anche).

 

Sono ok fine fersure fersure. Sono della valle, e non ci sono cure.

Io sono qua e tu sei il mio sofà.
Io sono Me. And you ain’t no cats.






I am the heaven, I am the water
Ich bin der Dreck unter deinen Walzen
(Oh no, whip it on me, honey!)
Ich bin dein geheimer Schmutz
Und verlorenes Metallgeld
(Metallgeld)
Ich bin deine Ritze
Ich bin deine Ritze und Schlitze

I am the clouds, I am embroidered
Ich bin der Autor aller Felgen und Damast Paspeln
Ich bin der Chrome Dinette, Ich bin der Chrome Dinette
Ich bin Eier aller Arten

Ich bin alle Tage und Nachte
Ich bin alle Tage und Nachte

Ich bin hier (AIEE-AH!)
Und du bist mein Sofa
Ich bin hier (AIEE-AH!)
Und du bist mein Sofa
Ich bin hier (AIEE-AH!)
Und du bist mein Sofa

Yeah-ha-ha-ay
Yah-ha
Yeah, my Sofa
Yeah-ha-hey

martedì 3 dicembre 2013

Fantasie de li nervi, rivortamenti nelle tombe

Lou Reed rivolge un augurio ai fori neri e ai talent





A seguito della più parte di queste allegre elucubrazioni possiamo affermare senza tema di smentita che qui si parla di Grace Kelly:

I don’t know just where I’m going
But I’m goin’ to try for the kingdom if I can
’cause it makes me feel like I’m a man
(…)
When I’m rushing on my run
And I feel just like
Jesus’ son


Grace Kelly ha ormai deciso di farla finita con il cinema, ma non è del tutto certa circa le sue prospettive (I don’t know just where I’m going). Teme che la sua fantasia (I’m goin’ to try for the kingdom if I can) sia una fantasia de li nervi.
È addirittura in preda a delusions mistiche: crede di essere figlia del Signore, anzi “figlio”. La sua identità femminile è pressoché smarrita.


Il fantasma ricattatorio di Hitch è lì a tenere Banquo: le delusions della sua bionda Eroina sono per il Maestro cagione di un’insanabile delusione. Ha pensieri di morte, addirittura la invoca: 


Heroin, be the death of me (…)

Alfred si convince che non l’Entità Alma bensì l’Entità Grazia sia sua moglie [it’s my wife] e che Ella abbia preso il posto dell’Entità Cinema nella sua larga vita [and it’s my life].

Frattanto, lo sconforto di Grazia assume toni drammatici:

I have made a very big decision
I’m goin’ to try to nullify my life


Fortuna che arriva il dottor Ghianda:

“Il dottor Ghianda visitò la ragazza, je fece beve l’acqua de cedro, ch’è un carmante bono pe certe fantasie de li nervi, e quarche goccia, tre vorte ar giorno, d’acqua antisterica de Santa Maria Novella de Bologna che la fanno distillà li frati cor filtro, che so speciali. (…)” [C.E. Gadda].

Grazie alla cura del carmante, tutto finisce per il meglio: Grace, vinta l’isteria e liberatasi di Hitch (“che su moje je diede du’ schiaffe de tajo (...), sicché quer micoletto de capoccia va a finì tuttantrove rispetto a ndove che se situa normarmente”), conquista il kingdom… ecc. (“Yes I can”). [no C.E. Gadda, né la prima né la seconda parentesi]. E il resto, come d'abitudine, è quella storia, che noi ci racconteremo.

Mah, tutto un po’ pò esse...


FÈSTINA TALENT(E)


Come imparare l’inglese in poco tempo e con facilità

In questa pagina vi daremo alcuni consigli utili su come imparare l’inglese e averne una perfetta conoscenza e pressoché completa padronanza in poco tempo e con piccoli ma semplici accorgimenti.
 

Molti vogliono imparare l’inglese e si chiedono: “Come posso fare per imparare l’inglese in modo rapido ma efficace? E cosa posso fare? Dove si può imparare una lingua come l’inglese?” È una bella domanda questa, fate bene a porvela, e noi cercheremo di darvi una risposta che soddisfi le vostre esigenze.

Imparare l’inglese non è difficile anche se si possono incontrare alcune difficoltà. Ma queste difficoltà possono essere superate facilmente con un po’ di buona volontà, un minimo di applicazione e con qualche utile trucchetto.
E un altro utile suggerimento: non vi dovete mai scoraggiare!
Vediamo dunque come è possibile imparare l’inglese in tempi brevi.

Innanzitutto è necessario accertarsi di una cosa fondamentale; bisogna cioè farsi questa domanda: “Io so già l’inglese?
Per assicurarvi se conoscete già l’inglese, per prima cosa provate a parlare in inglese (non è difficile provare). Se dopo due minuti vi accorgete che i suoni che emettete risultano essere inglesi, il vostro problema è già risolto e dunque non è necessario preoccuparsi.
Purtroppo, nella maggior parte dei casi questo non succede e perciò è opportuno trovare un altro modo per imparare la lingua inglese.
 

Il secondo passaggio è fondamentale: accertatevi di non essere già inglesi o americani o australiani o comunque anglofoni: infatti una persona inglese, americana, australiana, neozelandese o in genere anglofona o che vive in un paese dove si parla l’inglese ecc. di solito non ha bisogno di imparare l’inglese in quanto questa lingua gli o le è connaturata.
Una volta stabilito che non siete di lingua madre inglese e che dunque non riuscite a parlare la lingua inglese, è consigliabile cercare altre vie per imparare l’inglese.

Una cosa importante: per apprendere l’inglese non è indispensabile andare in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Australia o in altro paese di lingua inglese. Grazie a internet oggi si può diventare padroni dell’inglese in poco tempo e soprattutto senza tante spese.
 

Dunque. Per prima cosa dovete connettervi o collegarvi a internet tramite un computer; se non avete un computer il nostro consiglio è quello di acquistarne uno (ci sono appositi negozi dove è possibile acquistare un computer per cifre relativamente ragionevoli).
Una volta comprato un pc o un mac, dovrete per prima cosa accenderlo. Una volta acceso, accertatevi che sia funzionante; non è difficile, basta guardare il monitor per alcuni secondi e, se in questo lasso di tempo non succede nulla di particolare, cioè se sullo schermo non vedete comparire o apparire niente, è molto probabile che la macchina (non l’automobile: in gergo, per definire il computer, si può usare il termine macchina) abbia qualche difetto oppure che voi abbiate o avete commesso qualche errore.
Il nostro consiglio, a questo punto, è di leggere il libretto delle istruzioni.
Se il libretto delle istruzioni presenta tutte le lingue tranne l’italiano, è questo il momento di imparare l’inglese!
Certo, ci direte, voi: “Come facciamo a capire l’inglese se non lo conosciamo?
Questa ci pare un’ottima osservazione e una domanda più che pertinente, alla quale tenteremo di dare una risposta.

Per prima cosa collegatevi a internet, e poi… come?... Ah, già, non avete il computer… In questo caso vi suggeriamo di fare una cosa. Andate a casa di un vostro amico o di una vostra amica che possiede un computer e chiedete – con cortesia – se vi permette di usarlo. A quel punto, ottenuto il permesso… Come dite? Non avete né un amico né un’amica? Ahi ahi ahi… Questo, apparentemente, potrebbe essere un problema; ma ricordatevi di un punto fondamentale: non bisogna mai scoraggiarsi di fronte agli ostacoli.
Ad ogni modo, se non avete amici e desiderate imparare l’inglese in poco tempo e con risultati efficaci, eccovi un piccolo consiglio e un trucchetto che di solito funziona:

Innanzitutto è necessario connettersi o collegarsi a internet: non è difficile, è semplice. Vedrete che una volta connessi o collegati a internet, voi stessi vi sorprenderete di quanto sia semplice effettuare questa operazione, e magari vi direte: “Ma guarda tu con quanta facilità ci si può collegare o connettere a internet allo scopo di imparare l’inglese in modo semplice, senza tanta fatica, in poco tempo e senza grossi problemi di sorta!”

Le cose naturalmente potrebbero complicarsi in due casi: nel caso in cui non disponiate o non disponete di un computer e nel caso in cui non disponiate o disponete di una connessione. Ma non scoraggiatevi! Questo è importante, molto importante!
Il prossimo passo da fare è questo: andate su questo sito e leggete attentamente quello che c’è scritto. Avete letto? Bene, siamo a un buon punto.
Ora siete quasi pronti per cominciare a imparare l’inglese o ad apprendere l’inglese con pochi, semplici, elementari accorgimenti e con qualche trucchetto.

Per prima cosa uscite dal sito a cui vi eravate collegati (non è necessario spegnere il computer o disconnettervi, anche perché non avete né il computer né la connessione: in questo caso rileggetevi questo articolo dall’inizio) chiudendo il browser. Se non sapete con la dovuta esattezza che cosa sia o che cos’è un browser, non scoraggiatevi. Basta collegarsi o connettersi a un sito internet che spiega con semplicità e chiarezza cosa sia o che cos
è un browser e vedrete che ogni difficoltà sarà superata. Non scoraggiatevi…

Se per caso quel sito è scritto in inglese e voi non lo capite o non lo capiate, il nostro suggerimento è di imparare l’inglese quanto prima.


Imparare l’inglese, nonostante molti dicano o dichino il contrario, è più facile di quanto si creda o si credi.

Ecco alcuni suggerimenti: per prima cosa collegatevi a internet; poi, tramite ghiugl, cercate questo sito, digitando la seguente query “Dove posso trovare questo sito nel quale o in cui o dove si può imparare facilmente e in poco tempo l’inglese?”.
Vedrete, che grazie alle nuove trovate algoritmiche di ghiugl, in men che non si dica raggiungerete questa pagina.

Una volta raggiunta questa pagina web, cliccate su questo link… e vi troverete come per magia in una pagina dove si spiega come imparare l’inglese e apprendere tutti i segreti di questa lingua con qualche piccolo accorgimento e con pochi semplici trucchetti.

A questo punto finisce la nostra prima lezione di inglese.


Tornate a trovarci (è semplice, non è difficile: basta mettere un bookmark oppure andare su ghiugl e fare una piccola semplice ma non difficile ricerca), perché nella prossima lezione di inglese vi spiegheremo come imparare l’inglese in pochi, semplici ma soprattutto non difficili passi.

Nel frattempo, procuratevi (o procuriatevi)  un computer.



CORRELATI: Seconda lezione di lingua inglese ►

domenica 1 dicembre 2013

Boccakia mia (Boccakia in fiore) · Storia di coalizioni di maggioranza e opposizione in un Paese immaginario

Lallo e Lello in un'immagine di repertorio.

 (Utopia, distopia, ucronia)


Il capo della coalizione d’opposizione di Boccakia Mia (Boccakia in Fiore) era uno che non le mandava a dire. Quando la coalizione di maggioranza faceva una cosa un po’ scorretta, Lello (si chiamava il capo dell’opposizione) andava personalmente, in tram, presso la sede della coalizione di maggioranza e protestava vibratamente: “Guardate che queste cose non si fanno! Se fate ancora una cosa del genere, giuro che mi arrabbio e non vi voto più”.
Spaventatissimi, quelli della maggioranza gli sputavano in un orecchio, gli davano un calcio nella rotula e tutto tornava alla normalità.
“Oh, così mi piace”, commentava Lello, che poi riprendeva il tram e andava a casa ad aggiungere questo episodio nelle sue memorie. Le sue memorie consistevano in 50 pagine fitte fitte piene di episodi di questo tipo. Un giorno o l’altro le avrebbe pubblicate e fatto una barca di soldi per comprarsi una barca (amava andare in barca, ma anche in tram; solo che non era certo se fosse legale possedere un tram e soprattutto guidarlo per le vie della città. Si sarebbe informato in merito e, semmai, avrebbe fatto una proposta di legge per ottenere una legge che gli avrebbe permesso di possedere e guidare un tram).
 

Un giorno accadde un cosa brutta, a Lello: fu colto con le mani in un sacco pieno di biglietti di tram falsi. Sicché per anni aveva viaggiato in tram in modo illegale e scorretto.
La coalizione di maggioranza, facendo quadrato, disse che Lello doveva dimettersi e che essa avrebbe pensato a eleggere il suo successore. La coalizione di opposizione non poté che essere d’accordo.
Così, al posto di Lello, fu eletto Lallo.
“Lallo”, disse il capo della coalizione di maggioranza che aveva fortemente sostenuto il suo nuovo avversario, “è la scelta perfetta: infatti non commetterà mai azioni impure tipo viaggiare in tram con il biglietto falso, dal momento che, noi proponiamo, Lallo farà l’opposizione da casa sua, comodamente seduto in un banchetto dietro la lavagna con il cappello da somaro sulla testa”.
Maggioranza e opposizione trovarono questa soluzione ottimale e la plaudirono e la applaudirono.
 

A due mesi dalla sua elezione a nuovo capo dell’opposizione, Lallo vantava un numero di iniziative che si potevano contare sulla punta di un dito. Oltre a portare il cappello da somaro, aveva deciso di farsi impiantare una coda da somaro, perché, a suo modo di vedere, ciò avrebbe favorito un clima di distensione nel Paese (di Boccakia mia).
Lallo ebbe ragionissima: il Paese era distesissimo, anzi aveva la “forza dei nervi distesi”: fu Lallo stesso a coniare questo slogan, proponendosi altresì di utilizzarlo nelle venture elezioni democratiche. Ma…
Ebbene: la maggioranza redarguì aspramente Lallo dandogli dell’imbroglione in quanto aveva copiato lo slogan da una pubblicità degli anni Sessanta.
Lallo dovette riconoscere il suo errore politico e si disse pronto ad affrontare la giustizia, nella quale – sottolineò – aveva la massima fiducia. Insomma, Lallo credeva che lo avrebbero processato e che, magari, gli avrebbero inflitto una lieve condanna.
“Macché processare!” disse la maggioranza. “Ti strappiamo la coda per fare spazio e poi un bel calcio in julio!”
L’opposizione, obiettivamente, non poté che essere d’accordo.
Così Lallo scomparve dalla scena e si dedicò a scrivere le sue memorie. Purtroppo non aveva niente da ricordare e di fatto non poté scrivere le sue memorie; scelse allora di scrivere le memorie del capo della coalizione di maggioranza – su suggerimento dello stesso, il quale gli trovò un gost raiter che fece un lavoro coi fiocchi nel glorificare la magnanimità del committente.
Lallo era felice, perché – pensava – “ho finalmente combinato qualcosa nella vita: il mio nome campeggerà nelle vetrine e negli scaffali di tutte le librerie di Boccakia mia! (Boccakia in Fiore)”
Ma anche qui si dimostrò il somaro che era: il capo della maggioranza diede ordine che l’autore del libro delle sue memorie risultasse il gost raiter. “Così – dichiarò il capo – rivaluteremo questa lodevole figura di letterato oscuro ma valente”.
Il plauso fu generale ecc.
Ma ora si ripresentava il problema di una coalizione d’opposizione senza un capo. In un primo momento si pensò di eleggere Lillo, ma la proposta fece storcere il naso alla maggioranza.
Così fu deciso all’unanimità che il nuovo capo dell’opposizione sarebbe stato il capo della maggioranza. L’opposizione tutta fu talmente impressionata dalla genialità di questa soluzione, che non sapeva da dove cominciare per plaudire la faccenda.
Il capo della maggioranza, con l’abituale magnanimità, fece un gesto a significare che lui mica andava in cerca di consensi.

Venne dunque il giorno delle elezioni democratiche, preceduto da un’aspra campagna elettorale.
Nonostante il capo della maggioranza fosse anche il capo dell’opposizione, vi fu un colpo di scena imprevedibile: le elezioni furono vinte dall’opposizione, la quale festeggiò per due giorni e due notti la straordinaria, epocale vittoria.
Smaltita l’ebbrezza e fatta mente locale, l’opposizione si rese conto – sulle prime alquanto vagamente – che c’era poco da gioire, ché tanto il capo della nuova maggioranza era il capo della passata maggioranza, cioè l’opposizione era sostanzialmente la maggioranza.
La base della nuova maggioranza ex opposizione disse che c’era poco da gioire. Ma fortunatamente venne ad illuminarla un alto dirigente della nuova maggioranza ex opposizione, il quale scrisse un instant book di tre pagine in cui spiegava che il motivo di gioire c’era eccome! Infatti la ex opposizione nuova maggioranza aveva comunque vinto, essendo il capo della ex maggioranza nuova opposizione il leader indiscutibile della nuova maggioranza ex opposizione ed opposizione ex maggioranza.
Certo, essendo l’alto dirigente di professione filosofo, dapprima la sua tesi era difficilmente digeribile.
Fortuna che il capo della maggioranza-opposizione disse solennemente: “Ha vinto la democrazia”.
Immaginarsi il plauso del popolo! Tutti a battersi la capoccia: “Ma sì! Com’è che non ci avevamo pensato? Abbiamo vinto tutti insieme! Evviva noi!”
Qualche giorno dopo si insediò il nuovo governo di Boccakia mia (Boccakia in Fiore), composto da 951 ministri di una coalizione di maggioranza-opposizione, più tre filosofi esterni che scrivevano instant books e pamphlets.
Ah, che governo memorabile fu quello. E le riforme che fece! Ne elenchiamo le più notevoli:
 

- divieto di fumare senza prima farsi impiantare una coda da (vero) somaro;
- multa dai 3.000.000 ai 3.000.009 talleri d’argento a chi taglia le code ai somari;
- incentivi statali agli allevatori di somari;
- arresto fino a 32 anni per chi maltratta i somari;
- obbligo di fumare dall’età di 8 anni, per rimpinguare le casse dello stato (ma col divieto di cui sopra);
- obbligo di dotare i somari di casco;
- divieto di circolazione in tram di somari col casco;
(e ne potremmo citare a milioni…).

Ma seguirono gli anni della stretta morale, che ebbero per conseguenza nuove riforme, quali divieto di scaricare film dai camion, divieto di mangiare a stomaco vuoto, divieto di dormire per la ruggine, obbligo di una boccakiata quotidiana per signore e signorine, divieto di questo e obbligo di quello, obbligo di quello e divieto di questo. Un equilibrio perfetto.

Ma… e Lello? Vogliamo forse dimenticarci di lui? Che fine aveva fatto Lello, capo storico della più grande opposizione nella triste storia (a un dipresso simile a quella di Stefano Pelloni) della democrazia? Ebbene, contravvenendo al divieto di dormire per la ruggine, Lello dormì per dieci anni. Ovviamente quando il suo reato fu scoperto, fu aggregato in galera per 6 anni e 11 mesi.
In galera Lello ebbe agio di compiere una lunga e pacata riflessione, cui diede forma in un pamphlet al vetriolo di 12 pagine, che riuscì a far circolare clandestinamente.
Quando il pamphlet finì nelle mani del capo della coalizione di maggioranza-minoranza, egli disse: “La coerente perseveranza di Lello va premiata”.
E così fu.
Lello fu trasformato in somaro e – grazie a una legge speciale – poté essere macellato e da lui venne ricavata una discreta prosciuttella di dimensioni umane, che trovò posto in uno dei tanti (tutti) scranni vuoti del vecchio, desueto, abbandonato Parlamento.
Da quello scranno Lello riprese la sua solitaria battaglia politica. Peccato che, in quanto prosciuttella, non poteva dare forma verbale – o scritta – alle sue argomentazioni.
Ciononostante, fu rieletto per 12 legislature, grazie al sostegno della maggioranza-minoranza – che, fra l’altro, gli trovò anche una moglie prosciuttella, anch’essa rieletta per 12 legislature.
Per 12 legislature si recarono immancabilmente al palazzo del Parlamento, ogni giorno che fosse un dì, sedendo sui loro due scrannetti nel grande vuoto, in quella sede di dolore, mestizia e nullità rallegrata dalla presenza di erbacce, ragnatele e gatti randagi che davano la caccia a topazzi randagi. 
I due misero da parte un buon gruzzoletto, che fu loro molto utile quando furono arrestati perché, un giorno, Lello si era dimenticato di boccakiare la moglie.
Gli avvocati si succhiarono il gruzzoletto e riuscirono ad evitare la galera a Lello e consorte: non c’era una legge che prevedeva la carcerazione delle prosciuttelle.
Fortuna che il governo la decretò lì per lì.
Lello prosciuttella e la moglie poterono dunque tornare nel loro personale Parlamento; anzi vi si trasferirono armi e bagagli e lì rimasero fino a quando i gatti ebbero mangiato tutti i topi e il popolo, spinto da rabbia e necessità, ebbe mangiato tutti i gatti.
Il popolo scambiò per gatti anche Lello e la sua sposa, nonostante lo straziante implorare dei due: “Siamo due prosciuttelle, due prosciuttelle di somaro!” E come poteva il popolo sovrano credere a quella pur veritiera dichiarazione?
In questo modo: con l’entrata in iscena di Provolino, il quale disse►:

venerdì 29 novembre 2013

Venerdì nero ecc. ecc. ecc.

I gemelli De Rege-Marx
I gemelli De Rege-Marx colti nell’esplodere uno starnuto nero (lo abbiamo
corelphotato [mica c'abbiamo il sciop] noi, se no col cavoletto di Bruxelles
si vedeva) speculare che dà vita a una nebulosa.
È evidente che i due non si vedono l’un l’altro.
È altamente probabile che non vedano nemmeno lo specchio.
Altroché venerdì nero in arrivo: è già fra di noi il Black Sneeze, lo starnuto nero. Quelli che pensavano fosse un calesse, purtroppo dovranno ricredersi: è proprio un virus, di quelli col genitivo a regola d’arte.

La questione del virus col genitivo, come vedremo, non è di secondaria importanza.

Tutto il mondo dice ecc. ecc. ecc. oppure etc. etc. etc.
 

I filosofi di Mestre dicono: “A questo punto è più che evidente che la questione è squisitamente politica ecc. ecc. ecc.”.

Gli osservatori di costume svolgono impeccabili analisi sulla luce in fondo al tunnel, percorrono per giorni il tunnel a piedi, verso quella luce, e una volta giunti in prossimità del Vero e del Bello chiosano: “ecc. ecc. ecc.”. Non ci mica nasconderanno qualche orrenda verità non bella e non vera?

Gli economisti elaborano concetti imperscrutabili sulla “curva del 1997” per ore e ore; poi quando arriva il momento di tirare una sacrosanta somma, dicono: “ecc. ecc. ecc.”. Noi chiediamo spiegazioni su questa benedetta “curva del 1997” e loro ci deridono: “ecc. ecc. ecc.”. Mah, tutto può essere…

All’esame di Laurea, la studentessa di copywriting sorprende il Relatore e Controrelatore con questa ipo-tesi: “Fare la copywriter è una cosa che ti svegli la mattina, fai una docciua, bevi una spremuta di fichi d’India ecc. ecc. ecc.”.
Tutto concludendosi in gloria, nel ricevere un bacio poco accademico sente sussurrarle  nell’orecchio: “Non avrai mica copiato la tesi da un writer? (ecc. ecc. ecc.)”.


Chiedo a un passante di Mestre, non filosofo: “Scusi, c’ha mica d’accendere?” Lui estrae un accendino dicendo “ecc. ecc. ecc.”, cioè, l’accendino non funziona, è di quelli neri come lo starnuto, concepito per non tradire il livello terra terra del gas – ma gli studiosi di markettìn spiegano: “Serve come misura precauzionale affinché i bimbi, quando giocano con gli accendini – e sono miliardi, ’sti giocatori d’azzardo – non si accorgano che dentro c’è tanto gas da far esplodere l’accendino ecc. ecc. ecc.”.

Vado al Festival dei Corti, vedo un corto di 54 secondi (che poi risulterà ben secondo classificato) chiamato Shrunk, dove c’è uno con una faccia da mezzo matto che tenta di infilarsi i pantaloni dopo un lavaggio fallimentare (sbagliato programma). Impreca alquanto, ed è subito notte: vedo trascorrere i titoli di coda: “ecc. ecc. ecc.”.

Vado al Festival del scìnema di Roma e fremo in attesa della Scarlett: finalmente arriva, in tutto il suo splendore scarlatto, si dimostra molto disponibile – commenta un critico-poeta di un tg – nel firmare autografi per ben 5 minuti. Poi dice: “etc. etc. etc.” e se ne va. Non male, per mezzo testanzone. Anche la disponibilità ha un prezzo: questo è il prezzo della disponibilità.

Finalmente arriva uno dell’Associazione difesa consumatori e accusa sprecatori. Fa: “Ma scusate, dico io: perché usare tre ‘ecc.’ quando ne basterebbe uno? Abbiamo calcolato che se tutti, in questo Paese (che certo ci sono segnali di ripresa e autovelox di ripresa – magari un po’ troppi, i secondi intendo) noi (plurale pagliacaudato) ci limitiss… limiterebb… insomma, se userebbimo meno ‘ecc.’, potram…. Insomma, si va a sparagnare fino a 10 miliardi di vecchi euro all’anno luce”.
 

Ah, apriti cielo! Arrivano quelli che vedono comunisti come noi, genti comuni, quando ci guardiamo allo specchio, vediamo prima di tutto lo specchio.
E dàgli di Gatling: “Ma lei cosa vuole capire… Io capisco che lei quando io… Non mi interrompa, che io non l’ho interrotta, se non interrompendola per dirle che io capisco che lei ma non capisco che lei mi interrompe… Vergogna! Vergogna! Capra! Capra! ecc. ecc. ecc. … Viva la Libertà! Viva il contrario della Monarchia! Viva V.E.R.D.I.! ecc. ecc. ecc. … Traditore! Capra Spiatoria!”


Un Professore di Lettere Antiche (di centro – dunque non sospetto), che per caso passa di là, chiede cortesemente la parola. Non gliela danno. Allora lui si rivolge a una maestranza intenta ad analizzare twittate sul loggione tubi innocenti: “Scusi, ma et cetera è sufficiente ai nostri fini. Lei crede che Seneca, nella sua corrispondenza con Lucilio, si congedasse con 3 et cetera? Nemmeno con uno, a dire il vero. Si limitava a un Vale – che è come dire… ”
“Salute!” sembra augurargli la tuittera.
“Etcì etcì etcì” non si trattiene il Professore non sospetto in quanto di centro. “Mi scusi…”
“Si figu… etciùm etciùm etciùm” non si trattiene la bella.
“Che fa?… etcì etcì etcì…” chiede il Prof. “Declina?”
“Mannaggia, mi ha trasmesso il Black Sneeze… etciùm etciùm etciùm...”
“Un etciùm è sufficiente… etcì etcì etcì” puntualizza incoerentemente l’uomo di Lettere Antiche, “anche se un ‘etciorum’ sarebbe più corretto…” e si copre con forza la bocca, e si tura il naso.


Nell’arena, fra le tribune innocenti, tutti iniziano a interrompere tutti: “Etciùm etcì etciùm etciùm etcì.. Viva la Libertà! Etcì… etciùm… Vergogna! Capra! Capra… etciùm… borscevicchio!… Vergogna! (etcì etcì etcì)”.

ecc. ecc. ecc.

In fondo al tunnel nero si intravede il virus del Black Sneeze. C’est l’empire à la fin de la décadence.
 

Ma sempre meglio della peste bubbonica. Forse.

Come al (quasi)  solito, un ringraziamento a Marsiano (Commentatore e Commendatore Unico di questo blog with dirty little lips), il quale mi ha informato di questo Venerdì nero che io sapevo esistesse minga. Credevo fosse un virus, e invece – ma guarda tu, a volte... quando si dice... – è proprio un calesse.