mercoledì 24 dicembre 2014

Frenchie la Madonnina appare al signor Ramarra


Quando la Madonnina apparì a Paris durante la presentazione di un suo bestseller, Questo tempo (This Time), c/o la locale succursale di Shakespeare and Company. Per l’occasione, il signor Ramarra aveva assunto il colorito pseudonimo di Jesse Wallace.

Accadde poco dopo prima del tramonto (...) 

venerdì 12 dicembre 2014

L’uomo con le mani in mano

Sognano o son desti?

A Voghera, sul marciapiedi davanti al portone della propria abitazione, orario 8.30-12.30 e 15.05-19.30, un uomo se ne sta con le mani in mano.
Ai non rari passanti egli chiede: “Hai mica 100 lire?”
I passanti o non lo degnano di attenzione oppure lo guardano ovviamente.
Alle 12.30, dal balcone dell’appartamento al secondo piano, la moglie (che è la celebre casalinga di quella cittadina) gli dà una voce per avvisarlo che il pranzo è quasi pronto.
Sarà propriamente pronto soltanto verso le 12.50 circa; all’uomo servono almeno 10 minuti per lavarsi le mani in mano prima di mettersi a tavola.
L’uomo (meglio precisare: è l’ uomo di Voghera, non noto quanto la moglie, ma destinato – secondo molti – a diventarlo prima o poi, forse inevitabilmente) consuma il pasto tuffando il muso nel piatto, ché delle mani, in mano, non si può servire.
Dalle 14 circa alle 15, invece, in punto, egli schiaccia un pisolino sul fianco destro, tenendo le mani in mano. Fino a qualche tempo fa, per sicurezza, se le faceva legare dalla moglie per scongiurare imprevisti. Ora questa precauzione non ha più senso.
Alle 15.05, egli è di nuovo in strada. Fino alle 19.30 ripeterà la sua domanda ai non rari passanti: “Hai mica cento lire?”, e sempre le mani in mano, ché i passanti 100 lire non ce le hanno mica. E se anche ce le avessero – viene da dubitare – chissà se… Ma questo non ci riguarda.
Alle 19.30 – non sempre in punto – la moglie, affacciandosi alla finestra, lo chiama per la cena.
Che egli consuma nel modo già descritto. A Natale e per il 1° maggio, invece, pranzo e cena lo imbocca la famosa donna. Colazione no, però.
Dopo cena, l’uomo con le mani in mano e la moglie discutono: può essere del più e del meno, può essere di finanza ed economia: laddove, per esempio, la donna è fortemente contraria all’uscita dell’Italia dall’euro, il marito si dichiara fortemente favorevole a questo seppur – per certi versi – doloroso atto di revisione.

giovedì 11 dicembre 2014

Se tu mi dicessi

(intendendo con quanto segue un augurio o creando illusorie aspettative): buon lavoro, buona giornata, buon natale, buon compleanno, in bocca al lupo, se hai bisogno dei me non esitare, dài vediamoci – poiché l’unico lavoro buono è quello morto, l’unica giornata buona è quella morta, l’unico natale buono è quello morto, l’unico compleanno buono è quello morto, l’unica bocca buona è quella morta, poiché so che non solo esiterò ma eviterò studiatamente di aver bisogno di te e poiché alla sola fantasia di vederti il cuore mi si spaura – ecco, diciamo pure che in questi e simili casi, potrei, per un suggestivo attimo, dimenticare di essere un signore e aizzarti contro il sopravvissuto lupo.

mercoledì 10 dicembre 2014

L’uomo che vede regolarmente Al Pacino

Storia di amicizia fra due uomini semplici
Che cosa sarebbe la vita... (continua)


Osiride Nasvitz, 62enne lavoratore autonomo (carpentiere) residente a Scorcola (Trieste), oltre a essere convinto che all’interno di un noto Ente previdenziale e di un altro (non meno noto) il cui scopo, sulla carta, è la tutela assicurativa delle potenziali vittime di infortuni sul lavoro vi siano sin troppo strani – seppur impercettibili – fra movimenti e maneggi, e dopo aver rinunciato a rinnovare l’adesione a qualsivoglia sindacato nonché associazione nella cui sigla una delle lettere (“A”) rimandi alla parola “artigianato” (o, in rari casi, “artigiano”), da qualche tempo vede con una certa regolarità Al Pacino. Lo incontra di persona. Pur non avendo fatto nulla per incoraggiare questi incontri.
Che avvengono dove?
Il più delle volte nel piccolo laboratorio di falegnameria in affitto presso il quale Osiride svolge – a pochi passi dal suo (quasi fatiscente) alloggio IACP – la sua professione, e fra mille ingiusti oneri.
Che verterebbero su che cosa, questi incontri?
Intanto, su nulla che attenga all’attività del carpentiere (salvo in un’occasione, quando Al gli chiese se potesse fabbricargli – dietro più che equo compenso, naturalmente – un’elaborata mensola, a stretti comparti [numerati ed etichettati] per potervi riporre i numerosissimi telecomandi con i quali egli governa l’infinità di televisori, moderni e vintage, lettori dvd e vhs, impianti stereo e diverse altre diavolerie, assolutamente personalizzate, che l’attore tiene per casa – una delle sue case, quella del Connecticut).
Quasi sempre Al Pacino va a trovare Osiride per riferirgli qualche suo spiacevole grattacapo, un disgraziato incidente, una brutta grana, una rogna, fino a eventi con oscure tinte di sciagura apparentemente irrimediabile (o perlomeno Al ne parla come se fossero tali), nella sincera speranza che l’ormai amico possa cavarlo da questo o quell’impiccio e porvi definitivo riparo.
È una routine: Al, bussato al portoncino del laboratorio, e insinuando la sola testa nel locale, fa: “Conpermesso… Xe nissun? Te son, Osiride?” (così, in perfetto dialetto triestino: è comprensibile che fosse questo, per il carpentiere, l’aspetto più sconvolgente del primo tête-à-tête con l’attore. Ad ogni modo, a vantaggio del lettore, con l’aiuto del traduttore automatico universale di Eta Beta, trascriveremo i dialoghi in italiano).
“Entra pure, entra, Al. Sono subito da te”, risponde Osiride, “un attimo che finisco qua”.
Al si accomoda educatamente sulla “sua” seggiola e aspetta con pazienza.
“Allora, che cosa mi racconti oggi?” chiede dunque Osiride concentrandosi sull’ospite.
E Al Pacino inizia il suo racconto.
 

A titolo esemplificativo, riportiamo l’essenza della più recente disavventura in cui Al è incappato, proprio un bel guaio, per vedere se ci fosse modo di risolvere il quale egli si è precipitato da Osiride senza perdere un minuto.
“Come sai, Osiride, io sono costretto, per motivi di sicurezza, a traslocare spesso…”
Osiride lo sa eccome, ed è anche certo che la faccenda della sicurezza sia alquanto gonfiata, probabilmente soltanto una fisima, magari anche dovuta allo stress psicologico sopportato da Al (e del quale lo stesso Al ha parlato più volte ed esaurientemente a Osiride, indicandone le presunte cause). A dire il vero sta cominciando a stufarsi della solfa. Ma poiché non vuole che l’altro ne sia allarmato o che ciò possa dargli motivo di dubitare della loro amicizia, trattiene lo sbuffo e resta ad ascoltarlo fino in fondo.
“E sai anche”, prosegue Al, appesantendo la situazione nel venirsene fuori con la seconda, importante fisima – ma tanto Osiride ha scelto la strada, dalla quale l’amico vero non torna indietro, della comprensione e della complicità – “che, sempre per questioni di sicurezza, non affido quasi nulla all’alea di terzi, mi arrangio da solo con il mio furgone”.
Bene – dice il volto di Osiride nell’impassibilità dell’ascolto, un segnale di coinvolgimento e un invito a non temere la prosecuzione della narrazione.
“Ora, le cose stanno così: stamattina presto, caricato personalmente il camioncino (tre ore buone di lavoro) per un trasloco minimo, ma improrogabile e affettivamente significativo (sai, quello che mi restava dei miei nel Bronx Zoo), mi metto tranquillamente in viaggio per il Connecticut. OK, fin qui ci siamo. Ma a un certo punto non ci siamo più”.
Quando?, esorta il “quando” muto nello scatto, ma lieve e ondeggiato, della testa di Osiride.
“Quando mi blocca una pattuglia della stradale… così, capisci… senza che io gliene avessi dato motivo, per farmi perdere tempo, sarei portato a credere. Ma va bene, d’accordo, fanno il loro lavoro. Perciò non mi rimane che tirare fuori tutte le scartoffie richieste, esibisco tutti i documenti possibili, bolla di accompagnamento inclusa, forse esagero – giuro che non l’ho apposta – quando mostro anche il pass di uno studio. Un patrolman sembra prenderla come un gesto di arroganza, fa: ‘Troppo zelo, signor Pacino: l’avevamo già riconosciuta, non serviva lo sfoggio extra’. Io ribatto che ‘agente, non l’ho fatto apposta, mi si è infilata fra i documenti’, e poi, Osiride, sai quanto la polizia mi metta in paranoia. Le parti di poliziotto sono una specie di terapia per guarirmi dall’ossessione”.
“È anche vero che ti dividi equamente fra law e outlaw”, puntualizza Osiride per amor del vero.
Al Pacino spalanca gli occhi e la bocca (continua)

domenica 7 dicembre 2014

L’uomo di servizio

(Prima parte)




Non potendo, a causa dei miei fitti, pressanti, spesso ingombranti impegni, accudire degnamente alle faccende di casa, mi sono deciso ad assumere un uomo di servizio. Ho rinunciato ad assumere una donna perché, data la mia posizione – se sapeste qual è la mia posizione…–, so che le malelingue avrebbero di che malignare circa una mia tenuta in poco conto della donna (misoginia sarebbe eccessivo, anche se eccedere è il loro mestiere). Meglio, piuttosto, che esse facciano circolare un altro genere di voce calunniosa. Non saprei dire se questa voce è già in viaggio. Non m’importa. Ciò che mi sta a cuore mi pare sia chiaro.

Quest’uomo di servizio – non mi ha mai specificato se la definizione “domestico” lo urterebbe, perciò, nell’incertezza, giurai a me stesso che, in nessuna evenienza, in nessun caso, avrei usato questo appellativo nel riferirmi a lui – ha un nome e un cognome. Che non posso rivelare. In primo luogo perché egli ha diritto alla sua intimità (evito dispettosamente l’anglicismo d’obbligo). In secondo, ma non meno importante, perché li ignoro.



Sì, ho sentito la domanda. Ed ecco la risposta: non sono divorziato, né separato. Sì, ho vissuto per qualche tempo con una donna (nemmeno sotto tortura mi caverete di bocca quel termine, abusato, che indica, in sostanza, una concubina. Quel termine che fino a pochi anni fa usavano i comunisti fra di loro, e che ora i loro eredi si sono aboliti di bocca. Pubblicamente. So di già comunisti che continuano a rivolgersi quel termine in privato, tutt’al più in luoghi pubblici poco frequentati, e comunque badano a tenere la voce bassa. Sussurrano: “Come va, caro ***?” “Non c’è male, ***”. Non ce l’ho con i comunisti. Tutt’altro. Beh, forse “tutt’altro” è esagerato o addirittura non è il caso. Stabiliamo una volta per sempre che non ho niente contro i comunisti. Soprattutto perché non esistono più, si contrabbanda. Ma io ho motivo di ritenere che esistono eccome. Solo che hanno bandito – parzialmente – quella parola e hanno abolito il colore rosso. A me il rosso piace. Non lo avrei abolito, se fossi stato nei panni dei comunisti o, meglio, in quelli dei loro eredi. In casa mia il rosso abbonda. Qualche esempio? D’accordo: alcune tende, divano – ma più sul bordeaux – due belle seggiole in cucina: scarlatte, tendenti all’elettrico. In bagno c’è del rosso… Ecco, esattamente. Io stesso posseggo almeno due cravatte  rosse e un pullover rosso, di gradazione diversa.

Visto?

Quella donna, dicevo. I nostri contrasti erano troppo acuti, questo è vero, ma lei se andò di casa insieme alla domestica. Improvvisamente. Mi aveva accennato alla possibilità di un abbandono. Ma non avrei mai immaginato che mi avrebbe disertato portandosi dietro anche la donna di servizio – che lei, la mia convivente, aveva assunto senza gli scrupoli che in seguito mi sarei fatto io rispetto all’uomo di servizio che ora si occupa delle faccende cui io, personalmente, non posso far fronte per via dei miei intensi, straordinari imp… (Questo l’ho già detto. Scusate. È l’età. Non la mia: quella del mio collaboratore. Non so quanti anni abbia. Non glielo chiederei nemmeno sotto tortura, sua o di altri). Egli è intitolato – lo ribadisco – al suo riserbo. Stretto.

Quella donna, se posso: mi piantò in asso senza preavviso. Una mattina uscì di casa insieme alla donna di servizio e la sera non rientrò. Né il giorno dopo, la settimana dopo, il mese e l’anno dopo. Sono due anni. Non avvisai le autorità. E feci bene, perché tutti sapevano già che quella donna era svanita nell’aria fina insieme all’altra. I maldicenti non esitarono: una delle due si era innamorata dell’altra. Io so che non è così. Temo che la mia concubina fosse gelosa folle, vedesse un amorazzo fra me e la donna di servizio. Io ho la quasi certezza che l’abbia assassinata e fatta sparire: mettiamo nell’aria fina, in una palude o nell’acido. Ma deve essere successo qualcosa del genere. Non apro una parentesi per tre sole ma ottime ragioni: mi troverei la polizia per casa, uno; sarei internato, due; non sono uno scrittore di polizieschi, tre.
Quest’uomo, dicevo: ►

sabato 6 dicembre 2014

San Nicola di Bari e il principio di non contraddizione

Corsi e ricorsi della storia semo noi

(e voi siete ’na cozza grande)


Ancora, circa l’orrenda fine dell’Impero (o Regno – dopo i giorni del Governo in Esilio), vorremmo soffermarci su un curioso reperto video (e audio) risalente agli anni più dolorosi, in particolare quello della Rivelazione (ricorderete che l’allora Capitale capitolante fu colta e scossa di sorpresa – si diede a intendere nella furiosa concitazione del momento; tuttavia non si vollero riconoscere i prodromi della prossima disgregazione. Ciò, tipicamente, avvenne troppo tardi).
Il sogno della cozza
(Illustrazione di Stefano Baratti)
Il documento audiovisivo indica che la sera di un 5 dicembre un “canale televisivo” (ne abbiamo già trattato, ma torneremo sul concetto a vantaggio di coloro ai quali esso risulti tuttora aspro), con il compito di far superare senza traumi all’utente quel periodo critico della giornata (si pensi all’ora violetta o a quella che n’infrollisce ’l core) compreso fra le ore 20.30 e 21.00 (tempo estensibile a seconda delle esigenze del flusso pubblicitario – oggi più noto come sequenza di “messaggi liminali non occulti”, i limina fissati nella loro pianificata incertezza), “trasmetteva” (usiamo il termine pertinente a quella tecnologia) un trattenimento sovrinteso da una padrona di casa (detta anche “giornalista”; su questo concetto ritorneremo, ma si veda questo specimen) che ospitava tre chiari personaggi della mondanità dell’era, due dei quali vantavano la doppia (dubbia, ancorché in auge massima) qualifica di “giornalista-scrittore” (oggi Giano estinto) e un terzo (sempre secondo il vocabolario tecnologico allora in uso) detto, soprattutto da se stesso, “artista”, più precisamente “cantante” nonché “musicista”. Egli presenziava in forma virtuale, tramite il cosiddetto “collegamento esterno”.
La coppia “interna” aveva per nome rispettivamente Uther (spiegò: “Mamma e papà vollero omaggiare il pastore Martin Luther King, restando al di qua dello sfacciato esibizionismo; ecco il motivo della mutilazione”) e Diablo Sputafuoco. Nome e cognome autentici, sottolineò, e poi soprallineò che mamma e papà erano gente alla buona. (Voleva essere una furba quanto immotivata stoccata al collega – che sorrise fra il cereo e il terreo a dissimulare la bitchy resting face femminea).
La compagnia, dunque, per decisione statutaria della donna-anfitrione, “dibatteva” o “discuteva” intorno a un argomento all’apparenza vuoto, destituito di senso comune (come lo intendiamo noi, per carità) e specialmente (abbiamo potuto e dovuto constatare dopo molteplici disamine del “video” imprigionato nella fitta ragnatela del tempo) ispirato al o dal principio di contraddizione. Ci rendiamo conto che l’affermazione è ostica, oltre che rischiosa, pertanto cercheremo di spiegarci al meglio delle nostre capacità.
In quei giorni, il Regno o Impero (si è sopra accennato), quasi che la storia fosse incline – umile rivista d’avanspettacolo – a dar repliche (sappiamo che non è così),  era traversato da profondi sconvolgimenti (inizialmente dati per sotterranei), vi risuonavano largamente annunzi di una fine imminente o quantomeno incombente mica per ischerzo, con i cosiddetti barbari stavolta non alle porte, bensì saldamente radicati, incredibilmente rintanati nell’humus di quella società da, all’incirca, un sessantennio – forse abbondante (che oggi ci può parere un lampo, ma non è così). Essa, di primo sguardo sorretta da un anelito d’amore, si reggeva, se osservata da occhi sfoderati di prosciutto e annusata con narici non ottuse da polverine magiche, su una controversa dinamica, o, in altri termini, si fondava su una rara, smaccata, appassionata da sembrare innocente forma di quello che oggi, senza falsi pudori, denominiamo “internossismo” cui aderivano con allegria gli universi o quasi.
Per evitare il plagio, anziché sottolineare vogliamo qui evidenziare la caratteristica principe (per altro oggetto delle sinceramente finte lagne di que’ cavalieri del tavolo rotondo con seggiolino per il moschettiere esterno) di quel fantastico mondo, dove tutto, ruotando invero su se stesso, è diretto dal motore immobile primo variamente denominato: paccaspallismo, gomitammiccamento, duspaghismo o macaronismo (e culinarismi vari), ossia quel procedimento metodico, quel sistema a doppie, triple, quadruple, quintuple ecc. fino a onniple alla enneple, in grazia del quale aristidi e narcisi montano effimeramente in tolda spintivi, oltre che da (culinari) calci al culo, dalla convinzione che la proprietà eterna della città possa transitarsi tranquillamente su di loro.
Ma per non divagare esageratamente: l’elemento che spicca per contraddittorietà nel reperto visionato è l’oggetto della discussione, consistente, all’ingrosso, nella domanda (ideata personalmente dalla giornalista): “Ma davvero nel nostro Regno è necessario godere di appoggi, conoscenze altolocate, ammanigliamenti, calci al – passatemi il termine – sederino, per diventare persone (o personaggi) in vista?”
Luther non poteva essere d’accordo che sì, pur avanzando con un linguaggio assai complesso talune riserve (di riserva). Dello stesso parere si disse lo Sputafuoco. Incuriositi da tanta e ardita (dati i tempi e i costumi) controtendenza e successivamente indagando su altri reperti d’epoca, abbiamo trovato che lo Spitfire al tempo (si parla di un pugno di giorni innanzi) era fresco reduce da un rituale primitivo, vale a dire la “presentazione” (cercheremo di sviluppare in altra occasione anche questo concetto astruso) di un suo romanzo di poche pagine e meno senso, evento “partecipato” (dirimiamo subito: in quei tempi e in quei costumi questo verbo si poteva far tranquillamente transitare – pressappoco come l’eterno dell’urbe condita aglio, oglio, stanglio ad libitumque) da rappresentanti d’ogni consorteria mondana della caput di quell’Impero in putrefazione: schiere di giornalisti, scrittori, giornalisti-scrittori, giornaliste, scrittoresse di trilogie, triadi e tribadismi, figure in vista, figure nascoste, figure malcelate, figurine e figuracce; uomini chiunqui con donne qualunqui, finanzieri, finanziere, tardi manager prêt-à-manger, preti dei Prati, capibastone d’ogni fazione, attori e attore di fikcion-fuk-cion, esperti di comunikk-kekcion e di sti-kak-cion, ce n’era per tutti, abbiamo scoperto: e se non ce ne fosse stato, lì per lì (=2601) si distribuivano predicati come fossero ostie-lido: un “dottò” non si nega a nessuno, nemmeno a un primario di una clinica inchiestata. E (quasi) infine, uno o due, ma soprattutto un “cantautore” (altro concetto obsoleto: ma ci si dia un’infarinatura) vichiano, inventore della tesi filosofica secondo la quale la storia saremmo noi. Peccato davvero che non avesse chiarito chi fossimo noi. Oggi, anche grazie al nostro prezioso reperto, lo sappiamo.
Ecco la storia, infine, quella con non senza l’esse maiuscola, e il resto delle lettere mancanti: un mucchietto di popolani, arruolati nelle barracks e condotti in corriera al luogo del meeting, una libreria con 12 soppalchi e 3 parterre: biglietto pagato e buono mensa, eccoli lì, seduti par terre, in attesa del pax tecum di Sputafuoco: quella dedica personalizzata, seppure illeggibile (“Eh eh, me fa male er braccio e puro er gommito, ehh eh”) in frontespizio, che se fanno tanto de caccialli dalle barracks gnente gnente ja’a sbattono in muso a quarcuno.
Circa l’Uther, pardòn (la elle lo fa ’ncazzà), gli parlavano sopra, non s’è potuto – sinora – approfondire il carattere.
Quanto invece al personaggio in “collegamento”, vi confessiamo di aver faticato non poco ad afferrarne il pensiero nella sua articolata totalità. È del resto vero che si esprimeva in un linguaggio stranito, irto di “appunto” (ma lui non appuntava mica: tutto a braccio andava, tutto a braccio, manco un mezzo gobbo da fregargli la schiena, che così lo drizzava), schierati nell’area del fumetto che li conteneva ma che stentava a trattenere parole che tu dici umane, simili a cavalli di Frisia, a limitare i confini delle sue brachilogiche espressioni, quasi uguali a frasi, che si bloccavano con frenata improvvisa subito dopo soggetto e predicato, forse predicato e soggetto, magari anche soltanto oggetto, cosa, come un filosofo di Lagado con il suo carico di altrimenti indicibile. Appunto.
E il suo nome era F-Athos Morganos, all’apparenza un’illusione, un miraggio, ma simile a un moschettiere novecentesco; la voce roca e temibile, di uno che fa sul serio, i capelli artatamente screziati di tinture zebresche, e già che c’era informò d’aver anche lui scritto un libro, di soggetto vibratamente confuso (di titolo non ricordato o duro da strappare alla punta della lingua) – oggi, dopo la caduta della decadenza alla fine dell’Impero, diremmo “vacuo” –, forse, probabilmente incentrato su un non-concetto, quello di una inedita solitudine esistenziale, dovuta alla perdita dei vecchi compagnoni F-Ethos, F-Portos, F-Aramis, F-D’Artagnan.
Ma l’esistenziale, vuoi anche improbabilmente plagiato da Dumas, è carta infallibile a far breccia nel cuore dei viandanti perduti, e il libro (questo, in particolare) una letale arma di propaganda. Costui, come a parlare di un’illusione, di un miraggio (di se stesso, a se stesso), come in controtendenza ai controtendenti, sosteneva che “secondo me” (in ciò era indubbiamente un Galileo mancato – ma per un misero soffio) “conta quello che uno fa e vuole” (in ciò, invece, un mostro bicipite: Emerson e Schopenhauer incompleti, ma determinati a completarsi).
Cadde soltanto su una banale e faziosa domanda della anfitriona – per altro di ordine politico. Fu il suo spirito ribelle e anarcoide a fargli rispondere: “Non ho votato alle due ultime legislazioni” quando ella gli chiese birichina: “Per chi vota lei?”

La brigata – si esamini pure il nostro reperto, noi siamo qui a disposizione – s’intrattenne allegra per 35 minuti, dando l’idea di star impartendo una dura lezione al viandante smarrito, insieme a una sonora bastonata al principio di non contraddizione. Resta poco da aggiungere, ma d’un certo interesse storico.
In fumo nel fumo del tempo, dimenticati da tutto (consideriamo che dimenticare richiede qualche impegno e un minimo di attenzione a ciò che si dimentica: non vorremmo finire col contraddirci), ma non da tutti. Quella notte, il 6 dicembre di due secoli fa (197 anni, per la precisione), San Nicolò di Myra (detto anche di Bari) omise la sosta presso le abitazioni di Uther, Diablo Sputafuoco e F-Athos Morganos.
La maledizione vige ancora per i loro discendenti.