Che cosa sarebbe la vita... (continua) |
Osiride Nasvitz, 62enne lavoratore autonomo (carpentiere) residente a Scorcola (Trieste), oltre a essere convinto che all’interno di un noto Ente previdenziale e di un altro (non meno noto) il cui scopo, sulla carta, è la tutela assicurativa delle potenziali vittime di infortuni sul lavoro vi siano sin troppo strani – seppur impercettibili – fra movimenti e maneggi, e dopo aver rinunciato a rinnovare l’adesione a qualsivoglia sindacato nonché associazione nella cui sigla una delle lettere (“A”) rimandi alla parola “artigianato” (o, in rari casi, “artigiano”), da qualche tempo vede con una certa regolarità Al Pacino. Lo incontra di persona. Pur non avendo fatto nulla per incoraggiare questi incontri.
Che avvengono dove?
Il più delle volte nel piccolo laboratorio di falegnameria in affitto presso il quale Osiride svolge – a pochi passi dal suo (quasi fatiscente) alloggio IACP – la sua professione, e fra mille ingiusti oneri.
Che verterebbero su che cosa, questi incontri?
Intanto, su nulla che attenga all’attività del carpentiere (salvo in un’occasione, quando Al gli chiese se potesse fabbricargli – dietro più che equo compenso, naturalmente – un’elaborata mensola, a stretti comparti [numerati ed etichettati] per potervi riporre i numerosissimi telecomandi con i quali egli governa l’infinità di televisori, moderni e vintage, lettori dvd e vhs, impianti stereo e diverse altre diavolerie, assolutamente personalizzate, che l’attore tiene per casa – una delle sue case, quella del Connecticut).
Quasi sempre Al Pacino va a trovare Osiride per riferirgli qualche suo spiacevole grattacapo, un disgraziato incidente, una brutta grana, una rogna, fino a eventi con oscure tinte di sciagura apparentemente irrimediabile (o perlomeno Al ne parla come se fossero tali), nella sincera speranza che l’ormai amico possa cavarlo da questo o quell’impiccio e porvi definitivo riparo.
È una routine: Al, bussato al portoncino del laboratorio, e insinuando la sola testa nel locale, fa: “Conpermesso… Xe nissun? Te son, Osiride?” (così, in perfetto dialetto triestino: è comprensibile che fosse questo, per il carpentiere, l’aspetto più sconvolgente del primo tête-à-tête con l’attore. Ad ogni modo, a vantaggio del lettore, con l’aiuto del traduttore automatico universale di Eta Beta, trascriveremo i dialoghi in italiano).
“Entra pure, entra, Al. Sono subito da te”, risponde Osiride, “un attimo che finisco qua”.
Al si accomoda educatamente sulla “sua” seggiola e aspetta con pazienza.
“Allora, che cosa mi racconti oggi?” chiede dunque Osiride concentrandosi sull’ospite.
E Al Pacino inizia il suo racconto.
A titolo esemplificativo, riportiamo l’essenza della più recente disavventura in cui Al è incappato, proprio un bel guaio, per vedere se ci fosse modo di risolvere il quale egli si è precipitato da Osiride senza perdere un minuto.
“Come sai, Osiride, io sono costretto, per motivi di sicurezza, a traslocare spesso…”
Osiride lo sa eccome, ed è anche certo che la faccenda della sicurezza sia alquanto gonfiata, probabilmente soltanto una fisima, magari anche dovuta allo stress psicologico sopportato da Al (e del quale lo stesso Al ha parlato più volte ed esaurientemente a Osiride, indicandone le presunte cause). A dire il vero sta cominciando a stufarsi della solfa. Ma poiché non vuole che l’altro ne sia allarmato o che ciò possa dargli motivo di dubitare della loro amicizia, trattiene lo sbuffo e resta ad ascoltarlo fino in fondo.
“E sai anche”, prosegue Al, appesantendo la situazione nel venirsene fuori con la seconda, importante fisima – ma tanto Osiride ha scelto la strada, dalla quale l’amico vero non torna indietro, della comprensione e della complicità – “che, sempre per questioni di sicurezza, non affido quasi nulla all’alea di terzi, mi arrangio da solo con il mio furgone”.
Bene – dice il volto di Osiride nell’impassibilità dell’ascolto, un segnale di coinvolgimento e un invito a non temere la prosecuzione della narrazione.
“Ora, le cose stanno così: stamattina presto, caricato personalmente il camioncino (tre ore buone di lavoro) per un trasloco minimo, ma improrogabile e affettivamente significativo (sai, quello che mi restava dei miei nel Bronx Zoo), mi metto tranquillamente in viaggio per il Connecticut. OK, fin qui ci siamo. Ma a un certo punto non ci siamo più”.
Quando?, esorta il “quando” muto nello scatto, ma lieve e ondeggiato, della testa di Osiride.
“Quando mi blocca una pattuglia della stradale… così, capisci… senza che io gliene avessi dato motivo, per farmi perdere tempo, sarei portato a credere. Ma va bene, d’accordo, fanno il loro lavoro. Perciò non mi rimane che tirare fuori tutte le scartoffie richieste, esibisco tutti i documenti possibili, bolla di accompagnamento inclusa, forse esagero – giuro che non l’ho apposta – quando mostro anche il pass di uno studio. Un patrolman sembra prenderla come un gesto di arroganza, fa: ‘Troppo zelo, signor Pacino: l’avevamo già riconosciuta, non serviva lo sfoggio extra’. Io ribatto che ‘agente, non l’ho fatto apposta, mi si è infilata fra i documenti’, e poi, Osiride, sai quanto la polizia mi metta in paranoia. Le parti di poliziotto sono una specie di terapia per guarirmi dall’ossessione”.
“È anche vero che ti dividi equamente fra law e outlaw”, puntualizza Osiride per amor del vero.
Al Pacino spalanca gli occhi e la bocca (continua)