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mercoledì 10 dicembre 2014

L’uomo che vede regolarmente Al Pacino

Storia di amicizia fra due uomini semplici
Che cosa sarebbe la vita... (continua)


Osiride Nasvitz, 62enne lavoratore autonomo (carpentiere) residente a Scorcola (Trieste), oltre a essere convinto che all’interno di un noto Ente previdenziale e di un altro (non meno noto) il cui scopo, sulla carta, è la tutela assicurativa delle potenziali vittime di infortuni sul lavoro vi siano sin troppo strani – seppur impercettibili – fra movimenti e maneggi, e dopo aver rinunciato a rinnovare l’adesione a qualsivoglia sindacato nonché associazione nella cui sigla una delle lettere (“A”) rimandi alla parola “artigianato” (o, in rari casi, “artigiano”), da qualche tempo vede con una certa regolarità Al Pacino. Lo incontra di persona. Pur non avendo fatto nulla per incoraggiare questi incontri.
Che avvengono dove?
Il più delle volte nel piccolo laboratorio di falegnameria in affitto presso il quale Osiride svolge – a pochi passi dal suo (quasi fatiscente) alloggio IACP – la sua professione, e fra mille ingiusti oneri.
Che verterebbero su che cosa, questi incontri?
Intanto, su nulla che attenga all’attività del carpentiere (salvo in un’occasione, quando Al gli chiese se potesse fabbricargli – dietro più che equo compenso, naturalmente – un’elaborata mensola, a stretti comparti [numerati ed etichettati] per potervi riporre i numerosissimi telecomandi con i quali egli governa l’infinità di televisori, moderni e vintage, lettori dvd e vhs, impianti stereo e diverse altre diavolerie, assolutamente personalizzate, che l’attore tiene per casa – una delle sue case, quella del Connecticut).
Quasi sempre Al Pacino va a trovare Osiride per riferirgli qualche suo spiacevole grattacapo, un disgraziato incidente, una brutta grana, una rogna, fino a eventi con oscure tinte di sciagura apparentemente irrimediabile (o perlomeno Al ne parla come se fossero tali), nella sincera speranza che l’ormai amico possa cavarlo da questo o quell’impiccio e porvi definitivo riparo.
È una routine: Al, bussato al portoncino del laboratorio, e insinuando la sola testa nel locale, fa: “Conpermesso… Xe nissun? Te son, Osiride?” (così, in perfetto dialetto triestino: è comprensibile che fosse questo, per il carpentiere, l’aspetto più sconvolgente del primo tête-à-tête con l’attore. Ad ogni modo, a vantaggio del lettore, con l’aiuto del traduttore automatico universale di Eta Beta, trascriveremo i dialoghi in italiano).
“Entra pure, entra, Al. Sono subito da te”, risponde Osiride, “un attimo che finisco qua”.
Al si accomoda educatamente sulla “sua” seggiola e aspetta con pazienza.
“Allora, che cosa mi racconti oggi?” chiede dunque Osiride concentrandosi sull’ospite.
E Al Pacino inizia il suo racconto.
 

A titolo esemplificativo, riportiamo l’essenza della più recente disavventura in cui Al è incappato, proprio un bel guaio, per vedere se ci fosse modo di risolvere il quale egli si è precipitato da Osiride senza perdere un minuto.
“Come sai, Osiride, io sono costretto, per motivi di sicurezza, a traslocare spesso…”
Osiride lo sa eccome, ed è anche certo che la faccenda della sicurezza sia alquanto gonfiata, probabilmente soltanto una fisima, magari anche dovuta allo stress psicologico sopportato da Al (e del quale lo stesso Al ha parlato più volte ed esaurientemente a Osiride, indicandone le presunte cause). A dire il vero sta cominciando a stufarsi della solfa. Ma poiché non vuole che l’altro ne sia allarmato o che ciò possa dargli motivo di dubitare della loro amicizia, trattiene lo sbuffo e resta ad ascoltarlo fino in fondo.
“E sai anche”, prosegue Al, appesantendo la situazione nel venirsene fuori con la seconda, importante fisima – ma tanto Osiride ha scelto la strada, dalla quale l’amico vero non torna indietro, della comprensione e della complicità – “che, sempre per questioni di sicurezza, non affido quasi nulla all’alea di terzi, mi arrangio da solo con il mio furgone”.
Bene – dice il volto di Osiride nell’impassibilità dell’ascolto, un segnale di coinvolgimento e un invito a non temere la prosecuzione della narrazione.
“Ora, le cose stanno così: stamattina presto, caricato personalmente il camioncino (tre ore buone di lavoro) per un trasloco minimo, ma improrogabile e affettivamente significativo (sai, quello che mi restava dei miei nel Bronx Zoo), mi metto tranquillamente in viaggio per il Connecticut. OK, fin qui ci siamo. Ma a un certo punto non ci siamo più”.
Quando?, esorta il “quando” muto nello scatto, ma lieve e ondeggiato, della testa di Osiride.
“Quando mi blocca una pattuglia della stradale… così, capisci… senza che io gliene avessi dato motivo, per farmi perdere tempo, sarei portato a credere. Ma va bene, d’accordo, fanno il loro lavoro. Perciò non mi rimane che tirare fuori tutte le scartoffie richieste, esibisco tutti i documenti possibili, bolla di accompagnamento inclusa, forse esagero – giuro che non l’ho apposta – quando mostro anche il pass di uno studio. Un patrolman sembra prenderla come un gesto di arroganza, fa: ‘Troppo zelo, signor Pacino: l’avevamo già riconosciuta, non serviva lo sfoggio extra’. Io ribatto che ‘agente, non l’ho fatto apposta, mi si è infilata fra i documenti’, e poi, Osiride, sai quanto la polizia mi metta in paranoia. Le parti di poliziotto sono una specie di terapia per guarirmi dall’ossessione”.
“È anche vero che ti dividi equamente fra law e outlaw”, puntualizza Osiride per amor del vero.
Al Pacino spalanca gli occhi e la bocca (continua)

mercoledì 16 ottobre 2013

Cineasti indipendenti scoprono le indie

«All’inizio dell’MM (che non è Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang con remake di Joseph Losey, noi chiamiamo così il 2000 per accorciare: noi siamo per farla breve, si sarà capito) un gruppo di cineasti disperati — alcuni praticamente desperados causa una decennale cura a base di Quentin Tarantino che li portò più di una volta davanti al giudice, tanto erano intrisi di filosofia sparatoria e macellara, e da lì a familiarizzare con il weekend jail, in ciò antesignani della Lindsay Lohan quando la teen-ager si limitava a sniffare la benzina dei motorini, abitudine esente da rehab —... si diceva: questa band of brothers multinazionale di malincolti, seppur medio-altamente colti grazie ai corsi, ricorsi e stra-corsi di cinematografia in senso lato frequentati (molti serali), capìta l'antifona "no mainstream for cats" (per non parlare delle slammate di porte in faccia ricevute dalle cricche "indie", nel gergo della compagine referred to as "torte in faccia" per rendere meno doloroso l’evento), non per questo se ne fece una rassegnata ragione.
Anzi, nell’età dell’innocenza del World Wide Web 1.0, essa — noi abbracciammo furiosi la causa della rete. Abbagliati dai prodigi del flash *acro*edia versione 5, decidemmo: il mainstream ci faceva un baffo, e passammo dal MAIN-STREAMING allo STREAMING, dando inizio così ai nostri futuribili radio days. Internet-daze, ci suggerì il nostro linguaggio multimediale innovativo. Già sentivamo intorno a noi il mormorare (dell’invidia): "Quei bravi ragazzi hanno capito al volo il potenziale della rete". Heaven Knows, Mr. Allison, se non era vero: pionieri di una nouvelle nouvelle vague, ci mettemmo l’anima e la carne, avremmo fatto sfracelli inauditi e soprattutto invisti.

Vedevamo spalancarsi cancelli perlati, custoditi dal vecchio Pietro: per il timore di vederci sbarrare la strada ci umiliammo fino alla preghiera (ricattatoria): "Peter, se mi lasci sul cancello, io... io...". Nell’allucinazione il Santo gentile replicava: "Tu cosa? Voi de cche? Ma tornate quando sarete morti, a stomaco preferibilmente vuoto: ragazzi, di vita ce n’è una sola". Già, purtroppo eravamo vivi, ma fortemente allucinati. La frase del sant’apostolo, mal interpretata per via dell’apertura vocalica di quell’accento galileo, ci dava il tormento: "La vita è una sòla". Piano piano, ci stavamo trasformando in fanatici di una religione spiritual-tecnologica, per noi era quello il (doppio?) senso della vita. C’era chi, come Joe "Camarillo" Grillo, simile a un re pescatore, ripeteva all’ossessione "Il futuro è la rete, il futuro è il Web, distruggeremo l’ultimo metro di pellicola in celluloide, incendieremo ogni 8 mm sopravvissuta, daremo il fatto loro a ogni key grip, best boy, gaffer, clapper loader, script supervisor, location manager, stunt, inutili maestranze umane... e gli attori... ah, gli esosi attori... Via! Saremo noi gli attori della nostra arte: tutti a casa li manderemo, tutti a casa. Flash flaaash!" e talvolta abbracciava il computer, implorandolo: "Baciami, stupido!", le lacrime agli occhi come pioggia. Ma gli volevamo bene, non volevamo rivederlo a Camarillo.

Pima dei nostri film, avevamo già iniziato a girare nella mente il film delle nostre grandi speranze e della grande illusione. Ognuno si sentiva un million dollar baby, un padre pellegrino in missione possibile nel futuro senza ritorno dell’intelligenza artificiale. Invero eravamo un mucchio selvaggio di balordi, soldati di un’armata Brancaleone e costituiti in minuscole compagnie di ventura, micro-case di produzione cinematografiche, spesso così micro da potersi definire sgabuzzini (di produzione), a dispetto delle pretenziose, altisonanti, bombastiche denominazioni in inglese o simil-esperanto: I-Flix-Cine-Chen, Non Serviam Movies, The Want Row, Out-Archi-Pictures, Darfur Productions, Ides of Marx Brothers, In Good We Trust Films, On No One We Depend (significativo il doppio senso: Di Nessuno ci Fidiamo / Da Nessuno Dipendiamo) Corporation — e non di rado composte da un singolo individuo —, tutte prive di ragione sociale e di ragione tout court: ma più che underground, ci sentivamo overground, acrobati dell’iperuranio Web senza rete di sotto. Secondo l’uso dei metteurs en scène degli spaghetti western (che tanto piacciono a Tarantino, più gli spaghetti che i western, c’è da scommetterci), assumemmo non tanto pseudonimi quanto nomi falsi, ad evocare la nostra tensione all’universale: Pete Aquaan, Yogor Tangor, Keira "Yoshinaka" Yoshihisa, Orrin Onski, Mia Boca, Quentin R. DeNameland, Hugo Victor, J.L. Godhardon, Ed Wood-y Allen, Malcolm Banquo, Regan Lincoln, Titania O’Beron, Francesco Truffò, Botox Strauss, Aldo Movár, Dark-o Jurassic, Park Chan Charlie, il povero Sorvino ("parente di Mira Sorvino?" "No... quante volte glielo devo dire... Fermo restando che chiunque abbia un dato cognome deve necessariamente essere parente di un altro con lo stesso cognome, salvo casi incontrovertibili di nomi d'arte") e infine io stesso, prima Johnny "Guitar" Rotto, poi E. Johnny "prese-il-fucile" (sempre Rotto), ora a malapena integro. E tanti altri sognatori di pecore elettriche.»

In tane volutamente cupe che per squallore sfidavano i crummy dump e i run-down hotel della golden age del noir americano, partorivamo chilometriche sceneggiature, storyboard michelangioleschi, che si dovevano concretizzare in film da realizzare con computer forti di 8 Mb di Ram.

Dopo mesi di cova pre-produttiva, benché inconsapevole di questi limiti, uno di noi — di cui non faremo il nome —, un super ivory-iano di ferro e fuoco, partito in quarta con un progetto cyber-kolossal, con disperante convinzione hitleriana un bel giorno di un giorno da cani (com’erano immancabilmente i nostri giorni) spiegò sul pavimento della Wolfsschanze la sua mappa per l’uscita dalla sacca di Stalingrado: la sceneggiatura completa di Vanity Fair: A novel without a Hero (La fiera delle vanità) del compianto William Makepeace Thackeray. Il naso fumante di polverina della felicità, agli angoli della bocca stalattiti di bava, pesanti borse sotto gli infuocati oci ciornie, il Bondarciuk-Superciuk del terzo Millennio per ore illustrò i dettagli riguardanti la fase di studio, pre-produzione, lavorazione, produzione, post-produzione del film, terminando la conferenza con la sentenza "Come minimo, finiremo sulla copertina di Vanity Fair". Pur avendo le compagnie associate rinunciato a maestranze di sorta, ci avvalevamo del supporto tecnico di un geek informatico autodidatta, il quale, seppur umanamente squilibrato, fece sensatamente notare all’epigono di David Lean (maestro supplente del suddetto James Ivory, beninteso) il problema della banda. Il cui nocciolo fu compreso dal cyber-filmmaker solo un paio di settimane dopo: era impossibile "far girare" in streaming su internet un film del peso approssimativo di 1.600 megabyte.

«Fu un brutto colpo per tutti noi cineasti venire a conoscenza di questa spietata regola del gioco, fatta di concetti aspri quali "upload", "download" ma in particolare "loading", il tempo necessario perché un film completasse il proprio caricamento prima che gli spettatori del Web ne potessero godere. Tutto il progetto rischiava di andare in santo fumo. Il cultore del maestro del cinema ipnogeno, sul punto di gettare la spugna, in un estremo scatto di orgoglio credette di aver trovato la soluzione all’ostacolo: “Be’, potremmo spezzare il film in due parti, la seconda delle quali consisterebbe nel loading della prima e viceversa”. Il geek informatico, incerto se quello fosse il delirio di un keeg o di un dummy, si astenne dall’infierire, commentando: "Avrei due FAQ: quando ci sarà sufficiente banda da sostenere tutte e due le Fiere e tutte — quante che siano — le Vanità? E soprattutto: noi ci saremo?". All’impatto di quella bocciata, la caduta degli dèi non fu diversa da quella di una lunga fila di birilli, il progetto grandioso fu accantonato. Lo sceneggiatore, heautontimorumenos, si sbronzò di Pupi Avati fino a perdere coscienza. Fu ritrovato, riverso nel suo vomito di artista, in una camera con vista su un vicolo cieco, sordo, muto, pieno di gatti morti con cui banchettavano ratti circondati da iene in crisi d’astinenza che trattavano con Kenneth Branagh. Fu salvato dall’apparizione di Helena Bonham Carter e Jeremy Irons. Ma il danno era fatto.

La defezione fu rapida, totale e vile. I nostri associati, spaventati dall’aleggiante spettro del mancato successo, della fame e della miseria (senza nobiltà veruna), ci misero mezzo minuto a dissociarsi, associandosi ratti ai topi, fiduciosi che almeno qualche trippa di gatto avrebbero potuto rimediare. Quasi totale, la diserzione. Rimanemmo io e Mirò — pure il geek diede forfait — a condurre un difficile ménage a (win)dos 95 (ché il 2000 — sostenevano i Pereira della comunità astrologica internazionale — sarebbe arrivato solo nel 2001: un assurdo paradosso motivo di conflitti che fortunatamente si spensero in breve tempo, ma pronti a ripresentarsi il 31 dicembre 2999).

Buon viso a cattiva sorte: l’extrema ratio fu la sceneggiatura e la produzione di brevi clip (corti narrativamente coerenti), che verosimilmente non ci avrebbero aperto le porte di Hollywood ma nemmeno quelle del di là da venire youtube. E neppure (da dentro) quelle del dump in cui ci eravamo segregati a preparare la nostra vendetta nei confronti del mainstream: video trailer condensati dei film che non avremmo mai realizzati, anche perché, in certo qual senso, erano stati già realizzati: per guadagnare tempo senza perderlo a stilare sceneggiature impossibili (ne avevamo bell’e pronta una su una strana comunità di vampiri e ZOMBI-zombie — i secondi sotto copertura governativa — che si combattono, a forza di scherzi atroci, di vendetta in vendetta, all’ultimo sangue — è il caso di dirlo — senza apparente ragione; ma la verità è che il governo, dopo il successo nella lotta al fumo, vuole liberarsi una volta per tutte della calamità costituita dai tv movie fantasy di vampiri stroncando nell’adolescenza questi teen-ager emaciati e nichilisti: e chi meglio degli ZOMBI può agire in nome del governo? Oltretutto gli zombi — anche grazie alla new age di Shaun — godono sempre di ottima salute e per definizione, come il rock'n'roll, “can never die”: mica scemi i governi... Mentre i vampiri, ah, i vampiri, come dice oggi il mio amico Marsiano ► "ce li siamo giocati ormai, come Knocking on Heaven’s Door dopo che l'hanno rovinata i Guns N' Roses...)" sceneggiature ardite, dicevamo, tipo quella sulla costruzione del muro di Berlino (della cui caduta son piene le tasche del mondo), i retroscena del GRANDE COMPLOTTO, della COSPIRAZIONE INTERNAZIONALE che stava dietro l’edificazione del vallo tedesco-orientale:

la verità(aaa), signori nostri (ma non vi possiamo anticipare di più... in cuor nostro non disperiamo nell’apertura delle porte di Hollywood — quelle di Cinecittà magari no o sì, dipende dalla reggente), la vera verità sta tutta in un MAGICO WAFER, grazie al quale i comunisti conquistarono il mondo (soprattutto quello occidentale) con uno stratagemma che manco ve lo immaginate; altroché le fantasie sulla Guerra Fredda dei film cold-warari — in particolare negli anni ’60 — che fecero la fortuna di Michael Caine. Ma la verità ancora più vera e agghiacciante è che i comunisti sono ancora fra noi, c’è poco da deridere l’Uomo Forte ► che il mondo ci invidia, in virtù di una combinazione letale di wafer e rock'n'roll... ah, è inutile che ci deridiate anche a noi... ma tanto quel ghigno vi si cancellerà dalla faccia quando uscirà questo film... allora sì che starete freschi! (e ne fisserete di capre...)


Alla RISCOSSA!

 

Per il momento, Sorvino ed io, teniamo duro con la nostra rivoluzione retroattiva,  i nostri film trailer interattivi (e qui sta il bello, no?): hai voglia a sorbirti i trailer fuorvianti, che poi vai al cinema — il "rituale collettivo",
Spettatori all'entrata di una sala cinematografica
partecipano volentieri al rituale collettivo

come dicono i cineasti comunisti, che sono ancora tra noi — e ti becchi una sonora fregatura, oltre che gli afrori (puzza di ascelle sudate, aliti killer) che fanno parte del rituale collettivo stesso: cineasti come noi — che la mamma non ne fa più, per il momento — indipendenti e indie puntano al rituale individuale dell’interazione: vedi un trailer che ti dà l’idea di essere fuorviante e falsificatore? Un colpo di mouse al clip interattivo e si risolve la situation comedy: in pratica, se mi freghi ti cancello».




Prego, per qui si va nella cinecittà dolente, ma per fortuna lungi dell'afrore.

E. Johnny "prese-il-fucile", 1° gennaio 3000.

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