mercoledì 24 dicembre 2014

Frenchie la Madonnina appare al signor Ramarra


Quando la Madonnina apparì a Paris durante la presentazione di un suo bestseller, Questo tempo (This Time), c/o la locale succursale di Shakespeare and Company. Per l’occasione, il signor Ramarra aveva assunto il colorito pseudonimo di Jesse Wallace.

Accadde poco dopo prima del tramonto (...) 

venerdì 12 dicembre 2014

L’uomo con le mani in mano

Sognano o son desti?

A Voghera, sul marciapiedi davanti al portone della propria abitazione, orario 8.30-12.30 e 15.05-19.30, un uomo se ne sta con le mani in mano.
Ai non rari passanti egli chiede: “Hai mica 100 lire?”
I passanti o non lo degnano di attenzione oppure lo guardano ovviamente.
Alle 12.30, dal balcone dell’appartamento al secondo piano, la moglie (che è la celebre casalinga di quella cittadina) gli dà una voce per avvisarlo che il pranzo è quasi pronto.
Sarà propriamente pronto soltanto verso le 12.50 circa; all’uomo servono almeno 10 minuti per lavarsi le mani in mano prima di mettersi a tavola.
L’uomo (meglio precisare: è l’ uomo di Voghera, non noto quanto la moglie, ma destinato – secondo molti – a diventarlo prima o poi, forse inevitabilmente) consuma il pasto tuffando il muso nel piatto, ché delle mani, in mano, non si può servire.
Dalle 14 circa alle 15, invece, in punto, egli schiaccia un pisolino sul fianco destro, tenendo le mani in mano. Fino a qualche tempo fa, per sicurezza, se le faceva legare dalla moglie per scongiurare imprevisti. Ora questa precauzione non ha più senso.
Alle 15.05, egli è di nuovo in strada. Fino alle 19.30 ripeterà la sua domanda ai non rari passanti: “Hai mica cento lire?”, e sempre le mani in mano, ché i passanti 100 lire non ce le hanno mica. E se anche ce le avessero – viene da dubitare – chissà se… Ma questo non ci riguarda.
Alle 19.30 – non sempre in punto – la moglie, affacciandosi alla finestra, lo chiama per la cena.
Che egli consuma nel modo già descritto. A Natale e per il 1° maggio, invece, pranzo e cena lo imbocca la famosa donna. Colazione no, però.
Dopo cena, l’uomo con le mani in mano e la moglie discutono: può essere del più e del meno, può essere di finanza ed economia: laddove, per esempio, la donna è fortemente contraria all’uscita dell’Italia dall’euro, il marito si dichiara fortemente favorevole a questo seppur – per certi versi – doloroso atto di revisione.

giovedì 11 dicembre 2014

Se tu mi dicessi

(intendendo con quanto segue un augurio o creando illusorie aspettative): buon lavoro, buona giornata, buon natale, buon compleanno, in bocca al lupo, se hai bisogno dei me non esitare, dài vediamoci – poiché l’unico lavoro buono è quello morto, l’unica giornata buona è quella morta, l’unico natale buono è quello morto, l’unico compleanno buono è quello morto, l’unica bocca buona è quella morta, poiché so che non solo esiterò ma eviterò studiatamente di aver bisogno di te e poiché alla sola fantasia di vederti il cuore mi si spaura – ecco, diciamo pure che in questi e simili casi, potrei, per un suggestivo attimo, dimenticare di essere un signore e aizzarti contro il sopravvissuto lupo.

mercoledì 10 dicembre 2014

L’uomo che vede regolarmente Al Pacino

Storia di amicizia fra due uomini semplici
Che cosa sarebbe la vita... (continua)


Osiride Nasvitz, 62enne lavoratore autonomo (carpentiere) residente a Scorcola (Trieste), oltre a essere convinto che all’interno di un noto Ente previdenziale e di un altro (non meno noto) il cui scopo, sulla carta, è la tutela assicurativa delle potenziali vittime di infortuni sul lavoro vi siano sin troppo strani – seppur impercettibili – fra movimenti e maneggi, e dopo aver rinunciato a rinnovare l’adesione a qualsivoglia sindacato nonché associazione nella cui sigla una delle lettere (“A”) rimandi alla parola “artigianato” (o, in rari casi, “artigiano”), da qualche tempo vede con una certa regolarità Al Pacino. Lo incontra di persona. Pur non avendo fatto nulla per incoraggiare questi incontri.
Che avvengono dove?
Il più delle volte nel piccolo laboratorio di falegnameria in affitto presso il quale Osiride svolge – a pochi passi dal suo (quasi fatiscente) alloggio IACP – la sua professione, e fra mille ingiusti oneri.
Che verterebbero su che cosa, questi incontri?
Intanto, su nulla che attenga all’attività del carpentiere (salvo in un’occasione, quando Al gli chiese se potesse fabbricargli – dietro più che equo compenso, naturalmente – un’elaborata mensola, a stretti comparti [numerati ed etichettati] per potervi riporre i numerosissimi telecomandi con i quali egli governa l’infinità di televisori, moderni e vintage, lettori dvd e vhs, impianti stereo e diverse altre diavolerie, assolutamente personalizzate, che l’attore tiene per casa – una delle sue case, quella del Connecticut).
Quasi sempre Al Pacino va a trovare Osiride per riferirgli qualche suo spiacevole grattacapo, un disgraziato incidente, una brutta grana, una rogna, fino a eventi con oscure tinte di sciagura apparentemente irrimediabile (o perlomeno Al ne parla come se fossero tali), nella sincera speranza che l’ormai amico possa cavarlo da questo o quell’impiccio e porvi definitivo riparo.
È una routine: Al, bussato al portoncino del laboratorio, e insinuando la sola testa nel locale, fa: “Conpermesso… Xe nissun? Te son, Osiride?” (così, in perfetto dialetto triestino: è comprensibile che fosse questo, per il carpentiere, l’aspetto più sconvolgente del primo tête-à-tête con l’attore. Ad ogni modo, a vantaggio del lettore, con l’aiuto del traduttore automatico universale di Eta Beta, trascriveremo i dialoghi in italiano).
“Entra pure, entra, Al. Sono subito da te”, risponde Osiride, “un attimo che finisco qua”.
Al si accomoda educatamente sulla “sua” seggiola e aspetta con pazienza.
“Allora, che cosa mi racconti oggi?” chiede dunque Osiride concentrandosi sull’ospite.
E Al Pacino inizia il suo racconto.
 

A titolo esemplificativo, riportiamo l’essenza della più recente disavventura in cui Al è incappato, proprio un bel guaio, per vedere se ci fosse modo di risolvere il quale egli si è precipitato da Osiride senza perdere un minuto.
“Come sai, Osiride, io sono costretto, per motivi di sicurezza, a traslocare spesso…”
Osiride lo sa eccome, ed è anche certo che la faccenda della sicurezza sia alquanto gonfiata, probabilmente soltanto una fisima, magari anche dovuta allo stress psicologico sopportato da Al (e del quale lo stesso Al ha parlato più volte ed esaurientemente a Osiride, indicandone le presunte cause). A dire il vero sta cominciando a stufarsi della solfa. Ma poiché non vuole che l’altro ne sia allarmato o che ciò possa dargli motivo di dubitare della loro amicizia, trattiene lo sbuffo e resta ad ascoltarlo fino in fondo.
“E sai anche”, prosegue Al, appesantendo la situazione nel venirsene fuori con la seconda, importante fisima – ma tanto Osiride ha scelto la strada, dalla quale l’amico vero non torna indietro, della comprensione e della complicità – “che, sempre per questioni di sicurezza, non affido quasi nulla all’alea di terzi, mi arrangio da solo con il mio furgone”.
Bene – dice il volto di Osiride nell’impassibilità dell’ascolto, un segnale di coinvolgimento e un invito a non temere la prosecuzione della narrazione.
“Ora, le cose stanno così: stamattina presto, caricato personalmente il camioncino (tre ore buone di lavoro) per un trasloco minimo, ma improrogabile e affettivamente significativo (sai, quello che mi restava dei miei nel Bronx Zoo), mi metto tranquillamente in viaggio per il Connecticut. OK, fin qui ci siamo. Ma a un certo punto non ci siamo più”.
Quando?, esorta il “quando” muto nello scatto, ma lieve e ondeggiato, della testa di Osiride.
“Quando mi blocca una pattuglia della stradale… così, capisci… senza che io gliene avessi dato motivo, per farmi perdere tempo, sarei portato a credere. Ma va bene, d’accordo, fanno il loro lavoro. Perciò non mi rimane che tirare fuori tutte le scartoffie richieste, esibisco tutti i documenti possibili, bolla di accompagnamento inclusa, forse esagero – giuro che non l’ho apposta – quando mostro anche il pass di uno studio. Un patrolman sembra prenderla come un gesto di arroganza, fa: ‘Troppo zelo, signor Pacino: l’avevamo già riconosciuta, non serviva lo sfoggio extra’. Io ribatto che ‘agente, non l’ho fatto apposta, mi si è infilata fra i documenti’, e poi, Osiride, sai quanto la polizia mi metta in paranoia. Le parti di poliziotto sono una specie di terapia per guarirmi dall’ossessione”.
“È anche vero che ti dividi equamente fra law e outlaw”, puntualizza Osiride per amor del vero.
Al Pacino spalanca gli occhi e la bocca (continua)

domenica 7 dicembre 2014

L’uomo di servizio

(Prima parte)




Non potendo, a causa dei miei fitti, pressanti, spesso ingombranti impegni, accudire degnamente alle faccende di casa, mi sono deciso ad assumere un uomo di servizio. Ho rinunciato ad assumere una donna perché, data la mia posizione – se sapeste qual è la mia posizione…–, so che le malelingue avrebbero di che malignare circa una mia tenuta in poco conto della donna (misoginia sarebbe eccessivo, anche se eccedere è il loro mestiere). Meglio, piuttosto, che esse facciano circolare un altro genere di voce calunniosa. Non saprei dire se questa voce è già in viaggio. Non m’importa. Ciò che mi sta a cuore mi pare sia chiaro.

Quest’uomo di servizio – non mi ha mai specificato se la definizione “domestico” lo urterebbe, perciò, nell’incertezza, giurai a me stesso che, in nessuna evenienza, in nessun caso, avrei usato questo appellativo nel riferirmi a lui – ha un nome e un cognome. Che non posso rivelare. In primo luogo perché egli ha diritto alla sua intimità (evito dispettosamente l’anglicismo d’obbligo). In secondo, ma non meno importante, perché li ignoro.



Sì, ho sentito la domanda. Ed ecco la risposta: non sono divorziato, né separato. Sì, ho vissuto per qualche tempo con una donna (nemmeno sotto tortura mi caverete di bocca quel termine, abusato, che indica, in sostanza, una concubina. Quel termine che fino a pochi anni fa usavano i comunisti fra di loro, e che ora i loro eredi si sono aboliti di bocca. Pubblicamente. So di già comunisti che continuano a rivolgersi quel termine in privato, tutt’al più in luoghi pubblici poco frequentati, e comunque badano a tenere la voce bassa. Sussurrano: “Come va, caro ***?” “Non c’è male, ***”. Non ce l’ho con i comunisti. Tutt’altro. Beh, forse “tutt’altro” è esagerato o addirittura non è il caso. Stabiliamo una volta per sempre che non ho niente contro i comunisti. Soprattutto perché non esistono più, si contrabbanda. Ma io ho motivo di ritenere che esistono eccome. Solo che hanno bandito – parzialmente – quella parola e hanno abolito il colore rosso. A me il rosso piace. Non lo avrei abolito, se fossi stato nei panni dei comunisti o, meglio, in quelli dei loro eredi. In casa mia il rosso abbonda. Qualche esempio? D’accordo: alcune tende, divano – ma più sul bordeaux – due belle seggiole in cucina: scarlatte, tendenti all’elettrico. In bagno c’è del rosso… Ecco, esattamente. Io stesso posseggo almeno due cravatte  rosse e un pullover rosso, di gradazione diversa.

Visto?

Quella donna, dicevo. I nostri contrasti erano troppo acuti, questo è vero, ma lei se andò di casa insieme alla domestica. Improvvisamente. Mi aveva accennato alla possibilità di un abbandono. Ma non avrei mai immaginato che mi avrebbe disertato portandosi dietro anche la donna di servizio – che lei, la mia convivente, aveva assunto senza gli scrupoli che in seguito mi sarei fatto io rispetto all’uomo di servizio che ora si occupa delle faccende cui io, personalmente, non posso far fronte per via dei miei intensi, straordinari imp… (Questo l’ho già detto. Scusate. È l’età. Non la mia: quella del mio collaboratore. Non so quanti anni abbia. Non glielo chiederei nemmeno sotto tortura, sua o di altri). Egli è intitolato – lo ribadisco – al suo riserbo. Stretto.

Quella donna, se posso: mi piantò in asso senza preavviso. Una mattina uscì di casa insieme alla donna di servizio e la sera non rientrò. Né il giorno dopo, la settimana dopo, il mese e l’anno dopo. Sono due anni. Non avvisai le autorità. E feci bene, perché tutti sapevano già che quella donna era svanita nell’aria fina insieme all’altra. I maldicenti non esitarono: una delle due si era innamorata dell’altra. Io so che non è così. Temo che la mia concubina fosse gelosa folle, vedesse un amorazzo fra me e la donna di servizio. Io ho la quasi certezza che l’abbia assassinata e fatta sparire: mettiamo nell’aria fina, in una palude o nell’acido. Ma deve essere successo qualcosa del genere. Non apro una parentesi per tre sole ma ottime ragioni: mi troverei la polizia per casa, uno; sarei internato, due; non sono uno scrittore di polizieschi, tre.
Quest’uomo, dicevo: ►

sabato 6 dicembre 2014

San Nicola di Bari e il principio di non contraddizione

Corsi e ricorsi della storia semo noi

(e voi siete ’na cozza grande)


Ancora, circa l’orrenda fine dell’Impero (o Regno – dopo i giorni del Governo in Esilio), vorremmo soffermarci su un curioso reperto video (e audio) risalente agli anni più dolorosi, in particolare quello della Rivelazione (ricorderete che l’allora Capitale capitolante fu colta e scossa di sorpresa – si diede a intendere nella furiosa concitazione del momento; tuttavia non si vollero riconoscere i prodromi della prossima disgregazione. Ciò, tipicamente, avvenne troppo tardi).
Il sogno della cozza
(Illustrazione di Stefano Baratti)
Il documento audiovisivo indica che la sera di un 5 dicembre un “canale televisivo” (ne abbiamo già trattato, ma torneremo sul concetto a vantaggio di coloro ai quali esso risulti tuttora aspro), con il compito di far superare senza traumi all’utente quel periodo critico della giornata (si pensi all’ora violetta o a quella che n’infrollisce ’l core) compreso fra le ore 20.30 e 21.00 (tempo estensibile a seconda delle esigenze del flusso pubblicitario – oggi più noto come sequenza di “messaggi liminali non occulti”, i limina fissati nella loro pianificata incertezza), “trasmetteva” (usiamo il termine pertinente a quella tecnologia) un trattenimento sovrinteso da una padrona di casa (detta anche “giornalista”; su questo concetto ritorneremo, ma si veda questo specimen) che ospitava tre chiari personaggi della mondanità dell’era, due dei quali vantavano la doppia (dubbia, ancorché in auge massima) qualifica di “giornalista-scrittore” (oggi Giano estinto) e un terzo (sempre secondo il vocabolario tecnologico allora in uso) detto, soprattutto da se stesso, “artista”, più precisamente “cantante” nonché “musicista”. Egli presenziava in forma virtuale, tramite il cosiddetto “collegamento esterno”.
La coppia “interna” aveva per nome rispettivamente Uther (spiegò: “Mamma e papà vollero omaggiare il pastore Martin Luther King, restando al di qua dello sfacciato esibizionismo; ecco il motivo della mutilazione”) e Diablo Sputafuoco. Nome e cognome autentici, sottolineò, e poi soprallineò che mamma e papà erano gente alla buona. (Voleva essere una furba quanto immotivata stoccata al collega – che sorrise fra il cereo e il terreo a dissimulare la bitchy resting face femminea).
La compagnia, dunque, per decisione statutaria della donna-anfitrione, “dibatteva” o “discuteva” intorno a un argomento all’apparenza vuoto, destituito di senso comune (come lo intendiamo noi, per carità) e specialmente (abbiamo potuto e dovuto constatare dopo molteplici disamine del “video” imprigionato nella fitta ragnatela del tempo) ispirato al o dal principio di contraddizione. Ci rendiamo conto che l’affermazione è ostica, oltre che rischiosa, pertanto cercheremo di spiegarci al meglio delle nostre capacità.
In quei giorni, il Regno o Impero (si è sopra accennato), quasi che la storia fosse incline – umile rivista d’avanspettacolo – a dar repliche (sappiamo che non è così),  era traversato da profondi sconvolgimenti (inizialmente dati per sotterranei), vi risuonavano largamente annunzi di una fine imminente o quantomeno incombente mica per ischerzo, con i cosiddetti barbari stavolta non alle porte, bensì saldamente radicati, incredibilmente rintanati nell’humus di quella società da, all’incirca, un sessantennio – forse abbondante (che oggi ci può parere un lampo, ma non è così). Essa, di primo sguardo sorretta da un anelito d’amore, si reggeva, se osservata da occhi sfoderati di prosciutto e annusata con narici non ottuse da polverine magiche, su una controversa dinamica, o, in altri termini, si fondava su una rara, smaccata, appassionata da sembrare innocente forma di quello che oggi, senza falsi pudori, denominiamo “internossismo” cui aderivano con allegria gli universi o quasi.
Per evitare il plagio, anziché sottolineare vogliamo qui evidenziare la caratteristica principe (per altro oggetto delle sinceramente finte lagne di que’ cavalieri del tavolo rotondo con seggiolino per il moschettiere esterno) di quel fantastico mondo, dove tutto, ruotando invero su se stesso, è diretto dal motore immobile primo variamente denominato: paccaspallismo, gomitammiccamento, duspaghismo o macaronismo (e culinarismi vari), ossia quel procedimento metodico, quel sistema a doppie, triple, quadruple, quintuple ecc. fino a onniple alla enneple, in grazia del quale aristidi e narcisi montano effimeramente in tolda spintivi, oltre che da (culinari) calci al culo, dalla convinzione che la proprietà eterna della città possa transitarsi tranquillamente su di loro.
Ma per non divagare esageratamente: l’elemento che spicca per contraddittorietà nel reperto visionato è l’oggetto della discussione, consistente, all’ingrosso, nella domanda (ideata personalmente dalla giornalista): “Ma davvero nel nostro Regno è necessario godere di appoggi, conoscenze altolocate, ammanigliamenti, calci al – passatemi il termine – sederino, per diventare persone (o personaggi) in vista?”
Luther non poteva essere d’accordo che sì, pur avanzando con un linguaggio assai complesso talune riserve (di riserva). Dello stesso parere si disse lo Sputafuoco. Incuriositi da tanta e ardita (dati i tempi e i costumi) controtendenza e successivamente indagando su altri reperti d’epoca, abbiamo trovato che lo Spitfire al tempo (si parla di un pugno di giorni innanzi) era fresco reduce da un rituale primitivo, vale a dire la “presentazione” (cercheremo di sviluppare in altra occasione anche questo concetto astruso) di un suo romanzo di poche pagine e meno senso, evento “partecipato” (dirimiamo subito: in quei tempi e in quei costumi questo verbo si poteva far tranquillamente transitare – pressappoco come l’eterno dell’urbe condita aglio, oglio, stanglio ad libitumque) da rappresentanti d’ogni consorteria mondana della caput di quell’Impero in putrefazione: schiere di giornalisti, scrittori, giornalisti-scrittori, giornaliste, scrittoresse di trilogie, triadi e tribadismi, figure in vista, figure nascoste, figure malcelate, figurine e figuracce; uomini chiunqui con donne qualunqui, finanzieri, finanziere, tardi manager prêt-à-manger, preti dei Prati, capibastone d’ogni fazione, attori e attore di fikcion-fuk-cion, esperti di comunikk-kekcion e di sti-kak-cion, ce n’era per tutti, abbiamo scoperto: e se non ce ne fosse stato, lì per lì (=2601) si distribuivano predicati come fossero ostie-lido: un “dottò” non si nega a nessuno, nemmeno a un primario di una clinica inchiestata. E (quasi) infine, uno o due, ma soprattutto un “cantautore” (altro concetto obsoleto: ma ci si dia un’infarinatura) vichiano, inventore della tesi filosofica secondo la quale la storia saremmo noi. Peccato davvero che non avesse chiarito chi fossimo noi. Oggi, anche grazie al nostro prezioso reperto, lo sappiamo.
Ecco la storia, infine, quella con non senza l’esse maiuscola, e il resto delle lettere mancanti: un mucchietto di popolani, arruolati nelle barracks e condotti in corriera al luogo del meeting, una libreria con 12 soppalchi e 3 parterre: biglietto pagato e buono mensa, eccoli lì, seduti par terre, in attesa del pax tecum di Sputafuoco: quella dedica personalizzata, seppure illeggibile (“Eh eh, me fa male er braccio e puro er gommito, ehh eh”) in frontespizio, che se fanno tanto de caccialli dalle barracks gnente gnente ja’a sbattono in muso a quarcuno.
Circa l’Uther, pardòn (la elle lo fa ’ncazzà), gli parlavano sopra, non s’è potuto – sinora – approfondire il carattere.
Quanto invece al personaggio in “collegamento”, vi confessiamo di aver faticato non poco ad afferrarne il pensiero nella sua articolata totalità. È del resto vero che si esprimeva in un linguaggio stranito, irto di “appunto” (ma lui non appuntava mica: tutto a braccio andava, tutto a braccio, manco un mezzo gobbo da fregargli la schiena, che così lo drizzava), schierati nell’area del fumetto che li conteneva ma che stentava a trattenere parole che tu dici umane, simili a cavalli di Frisia, a limitare i confini delle sue brachilogiche espressioni, quasi uguali a frasi, che si bloccavano con frenata improvvisa subito dopo soggetto e predicato, forse predicato e soggetto, magari anche soltanto oggetto, cosa, come un filosofo di Lagado con il suo carico di altrimenti indicibile. Appunto.
E il suo nome era F-Athos Morganos, all’apparenza un’illusione, un miraggio, ma simile a un moschettiere novecentesco; la voce roca e temibile, di uno che fa sul serio, i capelli artatamente screziati di tinture zebresche, e già che c’era informò d’aver anche lui scritto un libro, di soggetto vibratamente confuso (di titolo non ricordato o duro da strappare alla punta della lingua) – oggi, dopo la caduta della decadenza alla fine dell’Impero, diremmo “vacuo” –, forse, probabilmente incentrato su un non-concetto, quello di una inedita solitudine esistenziale, dovuta alla perdita dei vecchi compagnoni F-Ethos, F-Portos, F-Aramis, F-D’Artagnan.
Ma l’esistenziale, vuoi anche improbabilmente plagiato da Dumas, è carta infallibile a far breccia nel cuore dei viandanti perduti, e il libro (questo, in particolare) una letale arma di propaganda. Costui, come a parlare di un’illusione, di un miraggio (di se stesso, a se stesso), come in controtendenza ai controtendenti, sosteneva che “secondo me” (in ciò era indubbiamente un Galileo mancato – ma per un misero soffio) “conta quello che uno fa e vuole” (in ciò, invece, un mostro bicipite: Emerson e Schopenhauer incompleti, ma determinati a completarsi).
Cadde soltanto su una banale e faziosa domanda della anfitriona – per altro di ordine politico. Fu il suo spirito ribelle e anarcoide a fargli rispondere: “Non ho votato alle due ultime legislazioni” quando ella gli chiese birichina: “Per chi vota lei?”

La brigata – si esamini pure il nostro reperto, noi siamo qui a disposizione – s’intrattenne allegra per 35 minuti, dando l’idea di star impartendo una dura lezione al viandante smarrito, insieme a una sonora bastonata al principio di non contraddizione. Resta poco da aggiungere, ma d’un certo interesse storico.
In fumo nel fumo del tempo, dimenticati da tutto (consideriamo che dimenticare richiede qualche impegno e un minimo di attenzione a ciò che si dimentica: non vorremmo finire col contraddirci), ma non da tutti. Quella notte, il 6 dicembre di due secoli fa (197 anni, per la precisione), San Nicolò di Myra (detto anche di Bari) omise la sosta presso le abitazioni di Uther, Diablo Sputafuoco e F-Athos Morganos.
La maledizione vige ancora per i loro discendenti.

sabato 8 novembre 2014

Debra Kadaver

It might seem strange to Herb and Dee

Herb and Dee



Can't remember what became of me
Carolina Hardcore Ecstasy

domenica 26 ottobre 2014

Bᴉɔʎɔlǝ ɹɐɔǝs


˥ǝodolp ɐup ˥ǝodolpɐ Qnǝǝusqoɹo-ɯǝ ɟᴉuɐllʎ ɯɐʞǝ ᴉʇ˙
I ʍɐuʇ ʇo ɹᴉpǝ ɯʎ qᴉɔʎɔlǝ'
I ʍɐuʇ ʇo ɹᴉpǝ ɯʎ qᴉʞǝ˙
I ʍɐuʇ ʇo ɹᴉpǝ ɯʎ qᴉɔʎɔlǝ'
I ʍɐuʇ ʇᴉ ɹᴉpǝ ᴉʇ

upside down.








Prossime imprese di Leopold e Leopolda Queensboro-me:

prendere la chiavetta USB e metterci dentro un giradischi;

prendere un gettone e chiedersi "Dove metto il sifone?";

prendere un sifone e chiedersi dove metterselo.

Buon lavoro, L. & L.!
 

Amour fou (Amor amorfo)

“So che hai nascosto le foglie morte sotto il tappeto, amorfo!”

Genti ben vestite,
in varie locazioni,
si danno bei bacìn.
Poi viene la sera,
feuilles mortes,
lacrimìn, ventolìn,
 
piovaschìn e neviskin.
Un caminètt, forse
qualche bacètt,
e poi scupètt.
Che ci vuoi far… così è la vie…
Si può sempre finir fra le sgrinfie di un
amour fou.

Mami dà di buzzo
buono; papi ha un dito puzzo
(parlo di tanti anni fa).
Poi veniva sera,
Lei fa “No!”
Bloccano.
Lui va ca’ e si arrangià.
Caso tragìck, forse…
ma verydick,
(capisci a mich…).
Che ci vuoi far… ’coz y est la vie…
Si può sempre finir fra le sgrinfie di un
amorfo.

Oggi vesti trendy,
fai casini orrendy,
ma sai quello che vuoy.
Poi viene la sera,
chiariscì,
lei fa: “Sì!”
(Siete entrambi modernì).
Fuori di voi, forse…
ma chi lo sa
quel che avverrà?
Che ci vuoi far… così è la V…
Si può sempre finir fra le sgrinfie di un
amourfo.




domenica 19 ottobre 2014

domenica 12 ottobre 2014

Diario di bardo

David “Ziggy Duststar Duca Dica” Bowie alza il braccio e, già che c’è,
il gomito
Sabbie mobili e polvere di stelle

Un caso notevole di fantasia de li nervi


Questa canzone (Quicksand, ndr) è sia esistenzialista che thelemitica. Sono anche d’accordo con l’idea del processo di pensiero ciclico del cantautore. Questa canzone descrive la lotta di Bowie con nuove idee thelemitiche nel tentativo di riconciliarle con le sue convinzioni passate.

L’intera prima strofa è un evidente riferimento a Crowley e all’orrore della meta finale dell’insegnamento thelemico: per rimuovere ogni residuo del proprio ego e ridurre la psiche di prima a iperconsapevolezza, poi inconsapevolezza, poi ri-consapevolezza, attraverso un processo che può essere unicamente definito come “attraversamento dell’Abisso”. Si tratta di un processo non dissimile discesa in schitzofrenia (sic, ndr) (e anzi, si sa di alcuni thelemiti che dopo aver tentato di conseguire l’obiettivo finale sono viceversa impazziti), ed è perciò comprensibile che ne fosse (B.) spaventato.

L’idea di “un mortale con il potenziale di un superuomo” è totalmente thelemica. I thelemiti ritengono che ogni uomo e ogni donna possano diventare un dio (o dèi), purché in grado di disciplinare adeguatamente la mente e attraversare l’Abisso.

Il refrain (o ritornello, credo si dica) pare essere una sorta di contrappunto a questo pensiero. (Bowie) dice a se  stesso che non è il caso di darsi tanta pena (nel senso di preoccuparsi), che tanto, dopo la morte, tutto andrà a meraviglia. Eppure continua a contemplare, e a preoccuparsi circa lo stato e le potenzialità della sua anima, e il ciclo continua. Ecco dunque come egli affonda nelle sabbie mobili (Quicksand, ndr) del suo pensiero, affollando milioni di pensieri nella mente, zangolandoli, finché riesce a malapena a tenere la testa in superficie.


È indubbio ch questa canzone è una summa dei principi fondamentali dell’esistenzialismo (e come no, ndr) –  negazione di Dio, l’imprescindibilità, da parte dell’individuo, dalla Scelta (negazione del libero arbitrio? ndr), l’isolamento cui sono condannati quanti cercano di rendersi indipendenti dalla Società; il senso fondamentale della ricerca umana (se afferriamo il concetto, ndr) è quello di dare un significato complessivo alla vita (ammappate, ndr). In sostanza, Bowie canta con calma rassegnazione il fatto che la vita è una spirale verso il basso – o una vasca (“vat”: IVA?, ndr) di sabbie mobili – e il tutto culmina nella realizzazione del fatto, al momento della propria morte, che tutto è stato privo di senso. (...)

CONTINUA


venerdì 10 ottobre 2014

The Front Page: marsiano sbaglia un commento


9 ottobre 2014, ore 05.21



marsiano (con l’emme MINUSCOLO), commentatore e commendatore unico di questo blog with dirty lips, posta un ardito commento a un post intitolato “Si potrebbe cantare? ma il cui senso intimo è dato da una selezione di “tiny urli” con i quali si segnala il meglio della critica espressionistica espresso dagli impressionanti critici – bimbe e bimbi cresciuti ad amuchina e a uno (1) di numero malinteso film con Douglas figlio, e il cui sviluppo prosegue ora con la dolorosa accettazione (non in quel senso!...) del daimyo Frenzy –  di un noto sito dedito alla vendita, fra l’altro, di libri che spiccano al mondo infame per la loro bruttezza oggettiva (“libro carinissimo”, “bellissimo”, l’ideale per “un pomeriggio piovoso”, libro che si legge “tutto d’un fiato” e simili; De Benedetti e Croce allo stato puro, insomma).

Ma ecco, come d’abitudine, l’arguto (sopra si diceva “ardito”) commento di marsiano, il quale sceglie anche stavolta il cimento (termine che, fra queste parentesi, gli garba notevolmente) con i giochi di parole. Non pago del “tiny urlo di Tiny Dallara”, si espande (o si allarga) in “"invece di un "tiny urlo di Tiny Dallara" e' piu' carino un "urlettino etc."” (la ridondanza di virgolette è qui inevitabile).

Il gestore del blog – che qui chiameremo “doubtwater”, anche se dalle immagini (e dal susseguente botta e risposta) si rivela la sua identità – è pronto alla replica, che giunge alle 05.22 dello stesso giorno:

“carinissmo, vorrai /vorrò dire...” (il refuso, per altro, costerà caro anche a doubtwater).

marsiano pare digerire il benevolo rimbrotto, ignorando tuttavia che la stampa forcaiola e gossipara gli sta alle costole, tant’è che alle ore 08.44, con una missiva elettronica disperata, comunica privatamente a doubtwater che è “troppo tardi, si e' gia' sparsa la voce”, allegando la seguente copia photogimpata di quello che in realtà è il “Chicago Examiner” (che ci vuole a trasformare “Chicago” in un anonimo “City”?):


Per dovere e onestà di cronaca, va detto che, fatta la bravata, nel frattempo marsiano ha tentato ruffianamente di far correggere il commento (“dai, correggimi tu il commento, uffa...”, ore 07.06, ecc.) allo stesso doubtwater, il quale, in osservanza dell’etica bloggara, naturalmente non s’è lasciato corrompere.
Ciononostante, fingendo di stare allo sporco gioco, doubtwater attribuisce lo scoop a Hildebrand “Hildy” Johnson, verosimilmente plagiato da Walter Burns.

Alle ore 08.49, a una seconda email contenente il laconico “sono rovinato”, marsiano allega una seconda presunta testimonianza della persecuzione di cui è vittima da parte della stampa forcaiola: un’altra photogimpata, stavolta di una non ben definita “Repubblica”:


La dura replica di doubtwater è: “che repubblica è? dela [sic] linea gotica?
La prima controreplica appare nervosa, e citarla non farebbe giustizia alle seconda, ben più brillante e degna del suo senso dell’umorismo: “e' una repubblica del fagiolo con le gotiche” (ore 12.40).

(Intanto il dibattito fra i due prosegue sulla pagina del Comicomelò. Ma marsiano, come la ruggine, non dorme).

Parrebbe dunque arrivato il momento della distensione, ma doubtwater, ad attenta analisi della prima pagina della “Repubblica (del fagiolo con le gotiche)” rileva una svista mostruosa. Perciò, in forma privata, ma crudelmente, scrive al suo corrispondente: «Hildebrand “Hildy” Scalfari sbaglia clamorosamente concordanza sulla “Repubblica del fagiolo con le gotiche”. Walter Burns non glielo perdona» (ore 13.29).

Alle 13.57 la tremenda rivalsa di marsiano (testo falsamente solidale “questi diavoli di gossippari”):



E lo scambio continua nel pomeriggio (saltiamo le ore, se no si diventa pazzi: dovete accordarci fiducia): doubtwater: “stampa forcaiola”; e marsiano, con leggerezza calviniana: “se ne accorsero, ma troppo tardi per correggere, ormai era gia' nelle rotative”; e ancora “in realta', in seguito a psicanalisi di Lazzul, si scopri' essersi trattato di clamoroso lapsus lazzuliano, insinuante che solo un visitatore su un milione potesse visitare quotidianamante (sic) quel sito” (marsiano, infatti, come si apprende dalla viva lettura dei commenti blogghici, teme i milioni di visitatori che fattoquotidianamente fanno ressa alle porte del comico melò per dire la chissenefottibile loro, ma noi non gli si apre: si preferisce appunto il commentatore e commendatore unico); “forchettaiola” e “del resto bisogna pure magna'”, insiste marsiano sempre in riferimento alla temuta stampa. E, se pensiamo al diavolo a otto fatto da Hildy e Walter intorno a quel disgraziato di Earl Williams, non ha esattamente tutti i torti dell’universo.

E così – come dice ille De Gregori – la sera è già notte.
Ritorna infine la serenità – come dice invece il Gigante Pensaci Tu.

marsiano inaugura una divertente monografia sul tema del vomito (del tennista, curva a, vomitolo di lana, farsi largo a vomitate, che – col suo di lui permesso – forse un giorno… non pubblicheremo! ah ah ah, beccati questa!).

Stamattina, 10 ottobre 2014, alle ore 04.25, dopo aver lottato per almeno 10 ore con tutti i giganti della valle al silicone senza trovare una risposta sensata a certe questioni di plugins, doubwater – sbagliando per altro il proprio account d’invio – non può che ricorrere a marsiano. Qualche secondo dopo, tutto finisce in un trionfo.

In fondo marsiano è più Johnson/Lemmon che Burns/Matthau. Magari un bourru bienfaisant? No, impossibile!
C’è però da augurarsi che non regali mai una cipolla d’oro a doubtwater.


Intanto il post Sofia Loren ipsum langue desolato.

giovedì 9 ottobre 2014

Sofia Loren ipsum


Sofia Loren ipsum dolor sit quicumquam, phosphatine marinae falieres consectetur elio. Phasus Phasellus id luctus nulla, id scelerisque arcu cytharae bassae. Donec immobilis gravi dat ipsum a nunc consequat, nec vulputate metus hendrix. In illo tempore quam, quisque in mattis ante, curabitur mattis egestas ei ei mi mi, ut luctus quam malesuada id. Morbi laoreet justo laica rolin stone orci fringilla, lollae brigidae ultrices velit lacinia e vicinia. Aenean eros fugit ramatiotis, convallis et urna et montia. Nullam libero diam, eleifender stratocaster in bibendum vel solleticudine. Fusce quae fusce efficitur vortam bonam, manfregdi posuere Janus riverat, riverun pastina vadam, mastro Janni. Integer et interdum Janui agus. Me cenas condimentum parcum non Caligulabue dapibus vespaque aliquet. Praesent non bibendum sed aliquam volutpat nisi semper semperque lacinia e vicinia. Suspendisse luctus rutrum ulna radioque, at accumsan ligula bove pharetra vel.
 
Nulla facilisi. Integer aliqua missa Italiae, vitae semper tellus ullamcorper nec. Proin in odio accumsan, pectore nunc, consequat felix de cat. Sed mattis eget sem at marlum blandit. Sodales varius tellus, ut molestie diam consequat. Vivamus nulla dolor, tempus tempor jacula iaculis marci pulchroculi lacinia est vicinia, semper sit amet sorci virdi.

Donec… donec sumus, ultra gambas est plus (bibendum ex ante), at hendrix vehicula a Sophia Loren malesuada vehicula (et daje!) sem nec “polentesque cafeneroque” (sic Piau murmurabat).


Nulla tristique quis augue in finibus. Aliquam varius purus Miguel sum semper mi. Mauris posuere, Maximilianis vel auctores condimentum, Sofia Loren, scicolo a tota mancina, purus feugiat, victor de sica vitae libero, attamen de curtis in toto non est disputandum, nec commodius petrus de vico. Quisque id diam elementum, sagittis ipsum et, porta cineris. Nulla ut odio vitae quam rhoncus faucibus. Nullam venenatis lacinia est vicinia sed iapan est lontan ac clementium mastaella.

Nunc eget erat vel orcu tristique porta. Duis imperdiet tempor erat sed consequat (de novo…). Praesent sit amet zappa risus in ore stultorum abundat deficitque uno tempore. Cras sit amet dignissim lectus. Sed fringilla vehicula vulputat, porttitor eu ante. Vivamus egestas mauris non enim pharetra maximiliani, ac grhoncus einaudit, nisi cursus leone per tini ad turcum neapolitanum usque tandem mactarillam. Sed est modem in rebem risus et bisus temporis.
Morbi et orbi, libero punctum it.

... Si potrebbe cantare?

(tiny urli)

 

http://tinyurl.com/njmz9eh

http://tinyurl.com/p4kr455

http://tinyurl.com/pcyq2g8 

http://tinyurl.com/kb9pa69

http://tinyurl.com/mxd59x9 
  


Ultimissima: marSiano (con l'M minuscolo e l's MAIUSCOLO), commentatore e commendatore unico di questo blog with dirty little lips, ci segnala un
urlino






Lasciate che urlino (volete?)

Volete? Cantargliele e suonargliele?
Dài, il vostro urlino-urletto qui sotto... eddài! e che vi costa? Nemmeno € 0,89...



Extry, extry, read all about it!

Questa poi! (anzi: testè!)

Hildy Johnson la fa in barba a Walter Burns (e per giunta photoscioppa cassando “Chicago”). Che scopo!...
marsiano è finito. Incassando,  porta a casa
(il giornale, che ha pagato, pure...)

Ma non è finita qui, tutt'altro ►

mercoledì 8 ottobre 2014

Quattro cose per strada

Sic transit Sedan mundi.
La prima è una borraccia di guerra, della guerra quindici-diciotto, piena di buchi, con annidate robine verminose, pus, liquidi giallognoli, ricca di sbrindellature, squarci, sbreghi ruggini, con un cartellino “gratis”. Tu la raccogli, la cacci in saccoccia, nel farlo ti procuri una varietà di tagli e ferite gravi. Se non andiamo errati ti verrà il tetano (e diverse altre malattie). In capo a una settimana crepi tra sofferenze che nessuno ti ha tuttavia augurato. La tua famiglia di fa un funerale da 18.000 euro, con bara e accessori acquistati da un’impresa di pompe funebri da decenni sotto l’occhio vigile e sospettoso del maresciallo Topponi della Tributaria. Che non ha prove.

La seconda è una tagliola per vampiri, con due cartelli: il primo dice “a gratis”; il secondo “infilami una gamba o, preferibilmente, la testa”. Tu, fatta la tua scelta (opzione 2), esegui. I cocci non sono manco tuoi.

La terza è una manifestazione del 1° maggio (chissà di quale anno, ma mettiamo 2014, massimo 2015). Anche qui i cartelli abbondano. Ma nessuno reca la dicitura “(a) gratis”. La cosa ti puzza. Ti avvicini a uno che ha tutta l’aria di essere un syndicalista. Ti puzza pure questo, ma solo finché non gli scorgi appeso al collo uno di quei cartellini che loro di solito portano appesi al collo, typo Bertinotti. Bene, pensi, è già qualcosa. Gli chiedi, a sto typo: “È gratis sta manifestazione?” Lui, con la bocca piena di porchetta, si fa in qualche modo capire: per forza, dice. Il 3 maggio, membro della fiumana, arrivi al Mar Rosso. Che però non si apre. Un syndicalista di Hamelin, a un certo punto, fa: “Voglio proprio vedere”. Entro un minuto, infatti, dalla superficie del mare emerge un cartello excalibur. Dice “gratis”. In 10.000, te compreso, vi buttate a mare, facendo la fine dei topi.

La quarta è un ebook kindleRewindle kdp-ombo ammazzate oh, che reca un’etichetta “€ 0,89”. Lo compreresti volentieri, ma sei già morto tre volte. Perciò non ti meriti l’appellativo di pidocchio pitocco che ti sputa addosso un passante scavalcandoti.

Quattro cose per strada e: la spada è già cappa, la cappa è già piombo. Ma…
Se ci fosse la luger… ah…

domenica 5 ottobre 2014

Giallo in maschera

I libri del doppio professore
© 2014 Mauro Pascolat

Stando alla consolidata tradizione, a Carnevale ogni scherzo vale, ma quello di cui rimane inizialmente vittima uno dei protagonisti di questa storia, nel volgere di poche ore assumerà i contorni di un mistero che finirà per riguardare un’intera comunità. A partire dall’evento paradossale che pare esserne all’origine – e considerati gli elementi letteralmente “inediti” che lo distinguono –, poco a poco prende forma il sospetto che lo sconcertante fenomeno sia destinato a travalicare i limiti di una burla carnevalesca, nel momento in cui i suoi effetti dilagano nell’opinione pubblica al punto che questa ne percepisce l’inverosimiglianza come invece qualcosa che rientra in un quadro di perfetta normalità.
Una singolare coppia di detective, di fronte all’inspiegabile e inarrestabile diffondersi di una sorta di “follia collettiva”, si incaricherà di indagare sul “giallo in maschera”, nel tentativo di far luce in una vicenda che, durante la settimana di carnevale, sembra trasferirsi sul piano di una messinscena dai complessi orditi, oscuramente orchestrati dal bizzarro concorso di indecifrabili avvenimenti e dall’intervento di sempre nuovi attori.
Nel racconto, percorso da una vena ironica, a tratti comica nella caratterizzazione dei personaggi e per il succedersi di situazioni grottesche, emerge altresì, in sintonia con la presentazione in chiave allegorica dello spirito cui il contesto aderisce, una lettura satirica della manipolazione della realtà resa possibile dall’intricata giungla della comunicazione mediatica al critico volgere del XX secolo.
Questo “giallo in maschera” troverà una soluzione nella sfida stessa che esso pone al lettore: con la richiesta di sospendere la sua incredulità per portarlo oltre il racconto che il libro contiene e – i personaggi ne sanno qualcosa… – nel quale il libro è contenuto.


Leggi il Capitolo 1 (e un estratto del Capitolo 2) online

lunedì 22 settembre 2014

47 morti che parlano (The Horror! The Horror!)

Scaricatori di diporto

Solo andandosene per la città, l’altroieri Oscarre fece una serie di incontri decisamente insoliti.
Vediamo di che si tratta, perché ne vale la pena.
Oscarre incontrò innanzitutto un individuo il cui aspetto poteva far pensare ad un morto. Costui, nel passargli accanto, gli disse: “Buon giorno”.
Oscarre fiutò nella sua scia un nauseante odore di petali di fiori da defunti che sicuramente emanava direttamente da costui.
Nondimeno rispose educatamente: “Buon giorno”.
S’imbatté poi in una bellissima donna, intenta a maledire la smagliatura di una calza; la sfiorò nell’andare: aveva, la femmina, due occhi iniettati di giallo e rosso, simili a due piccole frittate, un velo di trucco violaceo sulle guance, una voce glaciale con la quale gli disse: “Buon giorno”, dimenticando per quel brevissimo tempo le invettive contro l’indumento rovinato.
Oscarre la osservò meglio, più da presso, e constatò che quella bellezza straordinaria le derivava dalla pace della morte.
Ma “Buon giorno” replicò Oscarre. Il quale pensò anche: “Che donna da sogno… Peccato che…”


Così inizia questo viaggio.

Mentre:

Al termine del suo viaggio nella Tenebra, il signor Kurtz–He Dead poté vedere in faccia l’Orrore, di fronte al quale non seppe fare altro che nominarlo invano: “The Horror! The Horror!”. Vi invitiamo a seguire il viaggio nel moderno e decaduto Ade compiuto dal nostro incolpevole eroe per scoprire quale sarà la sua ultima, orrenda visione.

Essenziale e crudele assaggio della raccolta 47 morti che parlano, l’ennesima discesa negli Inferi. Ma dopo le letterariamente ben più illustri catabasi di Eracle-Ercole, Ulisse, Enea, Virgilio e Dante, Orfeo, e della sterminata compagine di coloro cui la fortunata sorte riservò il privilegio di intrattenersi in colloquio con morti parlanti, l’orrido cimento tocca ora a Oscarre, uomo comune, decisamente qualunque, forse affetto da quella forma di modestia malamente appresa che non lo contraddistingue particolarmente da tanti suoi contemporanei malati di tensione all’eterno dire, e perduti in chissà quali inferni, unico conforto i vampiri loro pari. Hanno voluto la Bestia? Ora si imparino a volerle bene. 

Detto questo, come dire, in qualche modo, buone notizie per gli scaricatori di diporto: cliccando qui, a partire dal giorno dell’Orrore 22 settembre (che mentre scriviamo è oggi) 2014 ad arrivare al giorno dell’Orrore 26 (c.s., c.m), essi potranno segnare una nuova tacca sul loro ruolino e dare un ulteriore senso alla ragione della della loro esistenza procurandosi senza intaccare di 1 solo mezzo cent di euro (non si dice SCARICARE GRATIS o FREE, ché non sarebbe formalmente corretto) le loro fiacche finanze la storia del nostro idiota Oscarre.

Attenzione, però: trattasi di una di quelle faccende in cui alla fine lo scaricatore avrà una (bella?) sorpresa. Scaricatore avvisato mezzo scaricato.

Bye bye love, bye bye happiness.

giovedì 18 settembre 2014

Carlito’s Way


Lezioni di modestia ai fanciulli

Carlito de La Rochefoucauld-Liancourt prima dell’invenzione
della modestia e di Al Pacino.

Sicché, mentre a lui, quello abituato a far fronte a catastrofi e cataclismi con il sorriso traditore di incisivi aguzzi, taglienti, si rivolgevano sopraffatti d’allarme addetti alla prevenzione di catastrofi e cataclismi, e ben esperti nel loro assegnamento, coll’indice indicando l’ingrossarsi di una nera apocalissi all’orizzonte distante questione di passi, insieme con l’acuirsi di odori di peste bubbonica, il dilagare incontrollabile di appestati per le vie, ai quali s’andavano, seppur con disgusto, alleando centurie di marcantoni e marcantonie armati di forconi, falci, pietroni, e tanti altri fantasiosi – non sempre improvvisati – strumenti di violenza, mentre di tutto pioveva sul nostro e sul vostro amore, insomma mentre, tra sospiri di “finalmente” e “fusse che fusse”, si avveravano taluni proverbi fino ad allora ritenuti conseguenti a ignoranza e superstizione, e via di fuga verosimili erano due: salto dalla finestra o trastullo con biglie colorate, paperine in gomma e pisellino di fresca scoperta, il Daimyo Sole XVI chiese a Carlito de La Rochefoucauld-Liancourt semmai avesse idea a che fosse imputabile tanta caciara – che, nondimeno, lo solleticava nemmeno – e, in seconda battuta, che gli andasse a ricuperare una paperella schizzata di vasca, ecco che Carlito, precisando trattarsi di “inappellabile rottura di coglioni” su tutti i fronti, e disobbedendo all’ultima richiesta del sire, fece alla maniera sua propria, di Carlito, appianando una pur improbabilmente futura controversia con quel dire semplice, magari primitivo d’argomentazione ma efficace (come la medicina amara) consistente nell’utilizzo di quel prolungamento di braccio e bile che risparmia biglie e paperelle ma non i reticenti ad allinearsi alle norme della buona creanza e i ribelli alle lezioni di modestia.
Carlito de La Rochefoucauld-Liancourt dopo l’invenzione della modestia e di Al Pacino.
Ma soprattutto alla notizia del mancato recupero della paperella.


sabato 2 agosto 2014

Per un pugno di 80 euri

Autunno 2014. Matt Raunchy, sceriffo del Kansassiti Uanaghenà,
un po’ imbolsito ma autosufficiente, in fuga dalla collera dei paisà
con ciascuno dei quali è in debito di US $ 107,452 (pari a € 80,00)
in seguito a mancato pagamento di scommessa (perduta).
(Illustrazione di Stefano Baratti).
io posso:
- fare castelli di sabbia in riva al mare (in alta stagione, tipo come oggi) per una giornata, forse due, data la desertificazione delle spiagge dovuta ai segnali di ripresa;
- costruire autogatti e mototopi con gli stecchini (di quelle raccolte che il primo numero è in edicola il 16 agosto e gli altri numeri non li vedi mica);
- e parlare con Pablo, naturalmente.


Inoltre, su amazon, io posso comprare, fra l’altro, un’elettrosega, le scarpe kawasaki, nonché quasi 10 copie di Per un pugno di dollari in dvd e, ho calcolato, 3,51493848858 blu-ray della versione restaurata, con doppiaggio originale d’epoca (“Enrico Maria Salerno e Carlo Romano in primis”, dice un acquirente verificato). E me ne avanza per parlare con Pablo.
Del fatto che lui lo ha scaricato a gratis. Io sono contrario. Lui è favorevole. Ma perché si fa pagare per parlare con lui? Questo non l’ho capito.

Con un pugno di 80 € io posso:
- pagare la multa per non avere pagato il canone rai fulminei che invece ho pagato, ma siccome sono più di un pugno di 80 euri, il resto me lo presta Pablo, con interesse del 70 %. E se non sono puntuale, dice che rimpiangerò il giorno che non ho pagato il canone. Che però io ho pagato. Hai le fotocopie? mi chiede Pablo. Veramente io. E allora statti zitto. Sempre a disposizione, comunque.

Per un pugno di 80 euri io posso:
- tradire mia moglie con le donne che conosce Pablo: lui fa e io guardo. Lui dice: per un pugno di 80 euri non pretenderai mica? No, io non pretendo. Come vedete, io posso parlare con Pablo.

Con un pugno di 80 € io posso:
- comprare un abbonamento per il torneo del combattimento dei galli: 2 match, contando che uno si paga 40 euri. Tuttavia posso chiedere a Pablo: sai se i galli li buttano o cosa?… Li buttano, mente Pablo. Lui ha l’esclusiva dei galli crepati, che sua moglie, benché cornuta, glieli prepara tipo amburghesi; non so come, ma li restringe, come fanno certi cacciatori di teste con le teste. Sicché da un gallo italiano, ne risultano tipo 3 amburghesi.

Ieri è successa una cosa brutta, triste: è morto Pablo. Lo hanno rinvenuto in un vicolo malfamato. Ma non l’hanno potuto far rinvenire. Era stecchito, freddo. Secondo gente che gli vuole male, si è trattato di un regolamento di conti fra strozzini.
A parte che non credo a questi infami, mi dispiace che non potrò più parlare con Pablo.

Con un pugno di 80 euri io ho potuto:
comprare un cuscino per Pablo, ma senza scritta ricamata, che costava troppo. Un cuscinetto piccolo, di quelli che conta il pensiero. Avrei fatto la corona, ma mi veniva a costare circa 2 pugni di 80 euri. Il beccamorto si è come risentito del mancato acquisto. Certo che se Pablo era vivo, me li avrebbe prestati lui. Ma che sciocco che sono: se è morto, come…

Stamattina a momenti mi prende un colpo. Suonano alla porta, vado ad aprire e mi vedo davanti indovinate chi? Pablo. Sì, in persona, in carne e in ossa.
Non faccio in tempo a riavermi, che Pablo mi fa: “Guarda che mi devi un bel pugno di euri”, tira fuori un taccuinetto e legge: “190,35, per la precisione”.
Io, sconvolto, incredulo, ammutolito, insomma fuori di me, balbetto: “Ma Pablo… Tu eri morto, ti ho visto con i miei occhi nella cassa… e tutti che piangevano, disperati… e tua moglie, poverina… e … e il cuscinetto, a proposito, non ti sarai offeso perché non c’era il ricamo con…”
“Senti, non menare il can per l’aia, sgancia gli euri che mi devi se no ti faccio rimpiangere il giorno che sono morto”.
“Pablo, amico mio, veramente in questo momento sono un po’ a corto… se magari tu non morivi… io magari ti potevo dare gli euri che ho speso per il cuscino, oppure…”
“Quanto hai in tasca?” fa lui secco.
“Veramente… c’avrò fa conto 5-6 euri”.
“Quando un uomo con gli euri incontra un uomo senza euri, quello con gli euri è un uomo morto”, dice sibillinamente Pablo.
Poi non ricordo più nulla.
Per 5-6 euri, io ho potuto:
- beccarmi un pugno (non di €, ovviamente) in faccia da parte di Pablo, di quelli che magari anche lui si è rovinato le nocche.
Eppure era morto. Non mi raccapezzo.

Verso sera, vagando per la città con la faccia sanguinante, fuori da un bar ho sentito provenire un canto: “Hanno ammazzato Pablo, e Pablo è vivo”.
Allora ho capito tutto. E a gratis.


CORRELATO L'uomo che affrontava le catastrofi con un sorriso

giovedì 31 luglio 2014

La donna che affrontava le catastrofi con un sorriso

O: la donna che da piccola voleva fare, da grande, la minestra, e invece…

Lola Bunny, fidanzata in tana-cunicolo (tutto regolare)
di Bugs Bunny.
Entrambi sono fra i più fedeli seguaci di questo blog
with dirty little lips.

La vicenda della fanciulla che da grande voleva fare la minestra (e, nello stesso tempo, affrontare le catastrofi con un sorriso) ebbe inizio allorché ella, una volta nata e trascorsa per un’infanzia igienicamente perfetta, vide, a età debita, il celeberrimo segmento di quel film con Alberto Sordi, nel quale non penò a riconoscersi. Era inevitabile: si chiamava Guglielma (presto universalmente detta “la Dentona”) e, da quella bocca aggraziata (con cui poteva dire ciò che voleva), diversamente da quanto voi vi sareste aspettati, non le spuntava un fiore come alla Virna Lisi, ma protrudevano, come a dare il fatto suo al mondo, due incisivi uguali sputati a quelli vanto di Lola Bunny 1, la fidanzata (in tana-cunicolo, tutto in regola, non si creda) di Bugs Bunny, il migliore amico e fedele sostenitore (se si esclude marsiano ►) di questo blog with dirty little lips.
Si cominceranno già a notare alcune apparenti contraddizioni; e via, affrontiamole insieme, parliamone senza prevenzioni e complessi.
Che nesso esiste fra l’aspirazione a fare la minestra (da grande, adulta) e l’ammirazione per Guglielmo il Dentone? Al netto – come suole dire questo giovanottone tanto bistrattato▲ – della comunione, determinata da nome e dentoni, fra lei e il personaggio sordiano, il basito lettore medio sensuale, pensando piuttosto a una ragazzina la cui ineccepibile ambizione fosse diventare una telegiornalista (anche per gareggiare nel gratificante torneo bandito annualmente da un commendevole sito web – ma che non conta tra i suoi sostenitori Bugs Bunny – tiè!), è tentato di insorgere. Per non dire poi della questione “affrontare le catastrofi con un sorriso” (tema già qui affrontato► con successo – e con un sorriso): lo scaltrito copywriter, per esempio, in quanto del mestiere e dell’andazzo, potrebbe farci una qualche pulce: che fate, riciclate? vi autoplagiate?
Ma noi s’è calmi, s’affronta il copywriter con un sorriso; ci si confronta, sempre con tranquillità e nervi-spaghetti scotti, con ogni risma di lettori e commentatori di professione (ché, indicano le forbici statistiche, a sciami quotidiani invadono, benignamente, queste pagine).
Bene. Vedrete che tutto torna alla fine, tutto scorre – basta che sia oliato –, tutto quadra (basta che sia quadrato).


La donna, ancora fanciulla (“citta”), aveva idee nitide, valori validi e saldi modelli: ella – al pari dell’uomo che affrontava le catastrofi con un sorriso (bello di due dentini faini, anziché dentoni, ma buggy quanto basta) – piovve in Toscana (laddove il Fucci Vanni, autoproclamatosi “bestia”, piovve di, e in dove sappiamo bene; eppoi ebbe ben altra tana che quella di Bugs e Lola: insistiamo, animaluzzi simpatici come ve n’è pochi). Una volta piovuta, crebbe regolarmente, il suo buon tempo consistente primariamente nelle letture di favole e fiabe, ma non solo: curiosa per natura, s’affascinò alle polemiche filologiche di Fanfani, Pietro, sopra la Cronica del Dino Compagni, che il La Tulipe (così era detto, forse con dileggio, in quelle cerchie, in quelle terre ecc.) provò falsa (Guglielma concordò, ma con riserva); nel cantare insieme (e all’unisono) con le moniche, in que’ loro cori virginali, e con le moniche andar in processioni reggendo certi moccoloni; in frequenti girate lunghe e solitarie pe’ boschi a corre funghi e, chissà, colla speranza di imbattersi nel principe – non necessariamente machiavellico, ma azzurro questo sì – di cui narrava la Cronica (gli abitanti del piccolo borgo, a cagione di questa sua abitudine, non tardarono a giustapporre “de’ boschi” a “la Dentona”); e sopra tutto, nell’osservare rapitamente mamma fare la minestra (che là chiamano preferibilmente “zuppa”, cioè “tsuppa”). E mamma, avendo al suo tempo appreso quest’arte da mamma propria (nonna a Guglielma), ben voleva impararla alla cittina, se non altro per distoglierla da quell’impossibile innamoramento per Alberto Sordi-Guglielmo il Dentone, affare impossibile: e per la divergenza d’età fra i due, e per la famigerata ostilità del Sordi a portarsi amori in casa.
Più avanti, quando sarebbe comunque stato troppo tardi per veder concreta quell’infatuazione, Guglielma, dimentica di Guglielmo – e sempre così accade –, si sacrificò tutta ai suoi segreti progetti: fare (da cresciuta) la minestra con la sapienza di mamma e nonna e affrontare, secondo i precetti delle moniche, peritissime nell’argomento per il misurarsi quotidianamente con se stesse stirando la bocca in un inarcar di labbra (piccole ma non sporche come quelle del nostro blog), eventuali catastrofi con un sorriso.
La natura di quelle terre le agevolò la missione; il destino la soccorse meravigliosamente. Che un giorno nonna, la quale viveva in una cascina nel fitto del bosco, s’ammalò d’una malattia di nonne, così che mamma disse a Guglielma: “Deh, Guglielma: te tu me t’andresti in bosco da nonna a portarle un po’ di codesta bona minestra che ho preparata?” – in verità disse “tsuppa” – “ ’Un sta benone, come te tu sai. E bosco facendo, te tu mi corresti qualche funghetto, badando che ’un sia di quelli invelenati?”
Guglielma era ben lieta di compiere quell’ambasciata, sebbene un dubbio la turbasse: “Deh, mamma: ’un l’è che poi incontro quel Lupo particolarmente cattivo di cui narra il Compagni – ancorché smentito dal Fanfani – e codesto animalaccio mi si mangia tutta quanta in un sol boccone?”
“Suvvia, Guglielma! ’Un darai mica retta a siffatte frottole? Tutt’al più te tu ti potresti imbattere in Ivo il Fungo, che tuttavia, se te ti t’un lo provochi, risulta bono come il pane e come la minestra” – disse proprio “minestra”, stavolta. (Ivo il Fungo, che buffo personaggio: stando al mito, vagabondava ne’ boschi per dare noia alle fanciulle, specie se avvenenti come Guglielma. Ma nessuno l’aveva mai veduto, se non in certe pellicole per soli grandi in cui – sempre secondo leggenda – aveva comparsato in gioventù, guadagnandosi un ovvio appellativo, da’ malvagi detto ‘cappellativo’).
Guglielma intraprese dunque il sentiero del bosco che menava da nonna; bosco facendo si teneva compagnia cantando di quei canti partenici imparati dalle moniche, e in frattanto coglieva un funghetto qua, un funghetto là, stando accorta che non fossero del tipo letale – che si capiva dalla capocchia o cappella. Ma nel mezzo del cammin di nostra Dentona, ecco pararsi sul sentiero – manco glielo avesse ordinato il dottore o l’Allagheri (detto Dante) – il Lupo particolarmente cattivo. Che, un po’ arrugginito, in vece della rituale tiritera, notò incuriosito: “Che bei denti, e grandi, che hai: a che cosa ti servono?”
Guglielma, per nulla intimorita dal Lupo particolarmente cattivo, dacché i suoi denti erano di gran lunga più grandi e cospicui delle sue paure, rispose: “Ad affrontare le catastrofi con un sorriso, sor Ivo”, ché per l’Ivo l’aveva scambiato.
Ne fu tanto ferito, il buon Lupo particolarmente cattivo, che tirò via per la sua strada – qualunque essa fosse – senza colpo ferire e senza nemmeno un saluto; e ciò gli valse nientemeno che un rimbrotto di Guglielma: “A casa mia si dice ‘Buona giornata e buon lavoro!’ quando uno si presenta e si congeda”, gli strillò lei dietro.
“Tsk” biascicò fra i denti consunti dall’astinenza il Lupo. Che invidiava le zanne della Guglielma la Dentona de’ boschi.
“Voglio proprio vedere”, pensò la citta soddisfatta, “se un Ivo qualunque è più grande delle mie paure”.
Sul far de’ vesperi, finalmente ella raggiunse la cascina di nonna. Esauriti i convenevoli con la vecchina, a Guglielma non rimaneva che servirle la minestra in una bella scodella (o ciotola rustica, quella usata dagli architetti), concepita, da’ de’ sainers, per tsuppe. Ma un lampo attraversò la sua vispa mente: “Quando, se non ora?” si chiese la Dentona. Aveva deciso che era giunto il momento galileiano: dopo tanto osservare, occorreva sperimentare.
Invitata nonna a pazientare, andò di là, in cucina, risoluta a prepararle la minestra di suo pugno. Per scongiurare ripensamenti, buttò quella di mamma alle ortiche. E con ciò fatto, prese a sfornellare emulativamente. In testa a un’oretta, nel pentolone si era formato un qualcosa di denso e oscuro, almeno quanto la selva – e pece si sarebbe detta, ma non lo era – in cui galleggiavano grumetti di un altrettanto qualcosa. La Dentona rassicurò se stessa: “Deh, saranno senza meno i funghetti, trallallà, trallallà”.
Solo allora, scodellata l’impietosa pietanza in una ciotola, la recò a nonna, che, malgrado l’infermità, la ingollò avidamente.
Due minuti dopo, l’ava si irrigidì. Curiosa come sempre, Guglielma volle cerziorarsi se vi fosse alcunché d’abnorme in quell’inatteso fenomenazzo. La sua indiscrezione a fin di bene fu premiata dal rilevamento d’assenza di battito del polso: Nonna era andata, come col vento.
“Uh, che catastrofe!” esclamò la cittina. “Qui si va ad affrontarla con un bel sorriso, però”. Che esibì allo specchio usato poco innanzi per la controprova sul respiro di nonna, anch’esso renitente all’appello. Bello cristallino, le restituì i dentoni spiccanti fra le piccole labbra.
“’Un sarà mica da biasimare funghi?” si chiese oziosamente. “Beh, deh, si esperisce” e dissigillò le labbia, e aperse la bocca, cui consegnò un pugnino de’ funghi ricolti ne’ bosco o selva.
Attesa invano la morte per un par d’orette, e dato che quella non si fece viva, dovette scientemente tirare due conclusioni: “I funghi l’erano bonazzi, e poi la morte è meno forte delle mie paure della morte, che non ho – le paure”. Restava la catastrofe (nonna decessa e fallimento culinario), ma restavano anche il sorriso e il tempo: “Ne avrò per imparare a fare la minestra come Iddio comanda”. Donato un bascione a nonna in fronte, stabilì che s’era fatta l’ora del ritorno da mamma. Ma quell’ora era altresì l’ora in cui la selva altroché oscura: buia come la minestra assassina. Ma certo non più paurosa delle paure di Guglielma. Che, dando animo alle sue lunghe gambe, s’incamminò nella notte. Sempre canticchiando un di que’ motivi religiosi, quasi fanfaniani.
D’un tratto, ecco ripararsi qualche cosa sul sentiero. Sarebbe stato magari il Lupo particolarmente cattivo? O fors’Ivo? Guglielma stette per pensare la frasaccia tutt’intera (arrivò a “chissene”, ma lì congelò il pensiero, ché, l’avessero intercettato, chissà in quale misura le moniche avrebbero censurato l’ardire di Guglielma de’ boschi). “Io andrò dritta”, pensò invece, “foss’anche fino alla prima curva”.
E diritta la diritta via (che qui l’Allagheri le faceva tutta una barba, altro che baffo!) affrontò – con un sorriso. Che dovette abbacinare quella figura di mistero sorta in sommo d’un dosso che celava il prosieguo del sentiero, che lì declinava: “Non aver paura”, udì Guglielma detto, come sputicchiato, dall’estranea sagoma.
“La mia curiosità è più forte delle mie paure, che tuttavia non ho. Rispondi, più tosto: chi saresti te? Nel mio libro, quando uno incontra un altro, prima cosa si dice ‘Buon giorno, buona notte, buon lavoro’ e poi casomai si discorre”, s’impuntò la citta.
“Vabbene, ti darò soddisfazione, ché la meriti”, rispose quello che in breve si rivelò un omo maschile, e tutto vestito d’azzurro. “Io, che piovo ora di Fiorenza, sono il daimyo azzurro Ta-mei Frenzō, sfuggito a un attentato ordito dal particolarmente cattivo ninja Hirōtoro Torogirō de’ Daspo di Fiorenza istessa; fui anche podestà, e ora, spodestato, vado alla cerca d’un degno asilo ed esilio, dove pianar la mia vendetta e far successivamente fuoco e fiamme, ben che il fuoco e le fiamme sieno più piccioli delle mie paure. Che, del resto, non ho”.
L’innocente Guglielma, candida, il Fanfani essendo il suo massimo faro, ben ignorava cosa fossero un daimyo e un ninja. Ma viceversa aveva sufficiente familiarità con l’òmini azzurri, per sentito narrare – sommessamente e fra risolini da’ moniche – sicché ne fu contrabbacinata, da quello spodestato.
Così il destino li incontrò l’un l’altra.
Proseguirono il cammin insieme, raccontandosela, informandosi del più e del meno. Guglielma seppe da Frenzō tutto quello che sulla terra c’era da sapere (come dice l’urniloquo Keats – sottolineò Frenzō re-citando, un po’ sputicchiante, l’originale inglese “Dis is evrifing on the word you cnow that there is from cnowledge”).
E poi lo mise a giorno circa la catastrofe coinvolgente nonna: “Ora non so come riferirne a mamma, che indubbiamente se ne avrà a male”.
“Non ti devi preoccupare, ché le preoccupazioni sono sì più grandi delle nostre paure, ma il bello è che, bada bene, le nostre paure sono inferiori a quelle di mamma. E resta sempre il fatto che noi non abbiamo paure. Io, per dirne una, affronto catastrofi e cataclismi con un sorriso”.
“Come?!” s’entusiasmò incredula Guglielma la Dentona de’ boschi. “Anche tu?”
“Sì, perché? Non mi dirai che pure tu…”
“Ma stai scherzando, dico”, confermò ella.
“Ma guarda tu te un po’”, fece lui. “Quando uno dice… porka matrioska…”
“Eh eh”, fece con un ditino fustigatore lei.
“Vabbè, lascia perdere. Piuttosto, visto che – siamo realisti, chiamiamo le cose col loro nome – ora che te ed io s’è combinato tutto quanto”, corse alquanto l’azzurro, “prima cosa si fa sapere a mamma che nonna l’ha tolta di mezzo il ninja particolarmente cattivo Hirōtoro Torogirō de’ Daspo di Fiorenza, dopo di che…”
“Un momento”, l’interruppe con un sorriso, ma severo, Guglielma. “Le bugie e le fandonie ’un si raccontano mica: Fanfani l’è chiaro su questo punto, le moniche non di meno, e per me Fanfani e le moniche rappresentano…”
Ma qui fu lui a troncare lei con un sorriso e una sequenza di sputizzi: “Stassentire: io adesso trovo in un batter d’occhio un bell’esilio, ne faccio in due, massimo tre giorni una signoria – se fallisco, giuro che mi dichiaro responsabile della morte di nonna –, con un bel governo di quelli che governano al fulmicotone: te tu t’andrebbe di farmi la ministra?”

Qui termina la storia, come una moderna opera aperta. Ma mica tanto. Ecco la nostra considerazione finale (o morale della favola): c’è chi, come il Martin, perde la cappa per un punto; c’è altri, come la Guglielma, che per una “i” perde la minestra, ma dal cambio vocalico, onestamente, s’avvantaggia un sacco. Sempre se il sacco non è un’opinione.


1 Fosse stato per Lola, la minestra lavrebbe fatta con le classiche carote. Sulla ministra, non si vuole pronunciare (e a che servirebbe dire “Lola”?)

CORRELATO L'uomo che affrontava le catastrofi con un sorriso