(Ciao Lalique, illustrazione di Stefano Baratti) |
Ecco: c’è quella voce non la smette un istante: “Chiudete la porta, Cristo Dio, fate il favore; a che cosa servono le porte, sennò?” Allora io mi sono chiesto se quella è la sua voce. Più avanti, ho cominciato a chiederlo agli altri, a cominciare da Dorando, e su su – si fa per dire – fino a De Topis. I quadri intermedi mi davano l’idea di indifferenza, disinteresse, insensibilità vicina al callo. Sulle prime, risposte non dico certe, ma plausibili, zero via zero.
Poi, così, come dalla notte al giorno, qualcosa li ha spinti a tirare fuori la Giovanna d’Arco che è in loro e mi hanno spiegato la voce di chi è quella. Mi sono inquietato: “Non ci posso credere!” L’ho urlato in gola. Non ci potevo credere? E perché – o come – mai?
De Topis è capace di cose insospettabili, dunque. Lui, così dimestico del suo linguaggio, forte della sua parlantina... chissà come... Un quadernetto tipo da poeta velleitario, aveva. Me lo infila in una cartella come farebbe un carbonaro. Mi fa cenno di aspettare almeno fino alla pausa, e si allontana. Torna sui suoi passi. All’orecchio: “Di notte, ogni tanto, in cucina, tra le puzze dei piatti sporchi”. E si allontana.
“Il partito si macera. Parentesi. Si mortifica nell’inesprimibile. Parentesi. Il partito è Caverna. Il partito è in torturata ascesi, sgrana rosari, inciliciato. Le cose, in verità, stanno come segue: al tempo dei tempi, il partito aveva il suo trono sulla montagna. Capite? Un quadernetto di quelli che ci si porta appresso nel tascone interno del cappotto e che ci si ferma a riempire in un bar, per esempio.
A capo.
“Nella notte dei tempi Esso produceva agende e vademecum, che riforniva ai. Cassato. di cui riforniva i propri adepti. Costoro riempivano le agende di schizzi surrealistici durante le assemblee, mentre ascoltavano il partito, quando il partito non era taciturno, non era il film muto di adesso, ma aveva una parola sana, robusta e di buona costituzione per tutti, si attivava per prendere le misure agli ignudi e vestirli, pagare da bere agli assetati, stilare la lista della spesa per gli affamati, sollevare i bambini al cielo al proprio passaggio fra le transenne, moltiplicare i grani di latte in polvere nei petti delle donne. Lo sapevo ironico, ma non così pericoloso. A capo.
“Ora il partito non si pronuncia. Perché sospetta di essere impronunciabile. Perché voci in corridoio (in contrasto con la sua voce) danno il partito prossimo alla forbice dell’impronunciabile. Ma c’è ben altro, signori nostri.
“C’è una sovrapproduzione di agende e di vademecum da parte del partito. Le agende in eccedenza vengono – questo va riconosciuto come un merito – riciclate per i bimbi delle elementari che si impratichiscono nella rappresentazione di insiemi; i bimbi stanno imparando a disegnare insiemi di partiti: conoscono l’insieme FLOP, l’insieme FLIP, l’insieme FLAP, l’insieme FLUP (questo, le classi del primo ciclo). Mi ricorda le ingegnose invenzioni del capitano Lemuele Gulliver. Via via, imparano a conoscere l’insieme FLOPULP, FLIPALP, FLAPOLP, FLUPILP, fino agli insiemi più complessi, tra i quali includiamo il FLOPALPFLUPFF e il PFAFFLOPPLULLPPLL (FFFPPP). Di qui – ma nulla di più – l’indicibilità del partito”.
“Ora il partito non si pronuncia. Perché sospetta di essere impronunciabile. Perché voci in corridoio (in contrasto con la sua voce) danno il partito prossimo alla forbice dell’impronunciabile. Ma c’è ben altro, signori nostri.
“C’è una sovrapproduzione di agende e di vademecum da parte del partito. Le agende in eccedenza vengono – questo va riconosciuto come un merito – riciclate per i bimbi delle elementari che si impratichiscono nella rappresentazione di insiemi; i bimbi stanno imparando a disegnare insiemi di partiti: conoscono l’insieme FLOP, l’insieme FLIP, l’insieme FLAP, l’insieme FLUP (questo, le classi del primo ciclo). Mi ricorda le ingegnose invenzioni del capitano Lemuele Gulliver. Via via, imparano a conoscere l’insieme FLOPULP, FLIPALP, FLAPOLP, FLUPILP, fino agli insiemi più complessi, tra i quali includiamo il FLOPALPFLUPFF e il PFAFFLOPPLULLPPLL (FFFPPP). Di qui – ma nulla di più – l’indicibilità del partito”.
I vademecum erano pieni di errori di stampa. Per lo meno li avevano tolti dalla circolazione e dati da correggere.
Da questo punto di vista, ora sono un bijou. Però sono un disastro di sintassi.
“Be’, non farmele girare, adesso!” mi ha apostrofato De Topis, di ritorno dall’Elba.
Ha gonfiato le gote per mimare acqua in bocca.
“Cara?” gli ho chiesto goffamente con l’acqua in bocca.
“Figurati. Da spellarti fino all’osso”.
Ho girato e rigirato i pollici aspettando qualcosa. Forse che mi infilasse di soppiatto in un cassetto o in una cartella un quadernino riempito durante il soggiorno all’isola. Aumm aumm.
“Io... ho preso una decisione...” faccio.
“Sarebbe?”
“Rispedisco il vademecum, le agende e tutto quanto al mittente. Io non ce la faccio a... Il partito è ormai geroglifico...”
“Tu mi fai girar, tu mi fai girar”, ha canticchiato De Topis, “come fossi una bambola...”
Mi ha buttato un braccio intorno al collo: “Ti ricordi? Ti ricordi?” Aveva gli occhi rossi. Ho spostato la sigaretta.
“Certo”, gli ho risposto. “È per questo che ho preso la decisione di liberarmi del vademecum. È incomprensibile, illeggibile, e, forse, anche irriciclabile”.
Continuavo ad aspettare un segno. Un quadernetto.
De Topis si è alzato in piedi e facendo un giretto per la stanza ha intonato una delle sue prese di posizione in bilico sopra una stanchezza infinita:
“Io ti capisco. Fai. Però sappi che forse stai prendendo un abbaglio enorme. Il fatto è questo, vedi: il partito è così perché si sta rigenerando, capisci? Il partito è l’araba fenice”. Aumm aumm. “Voglio dire che il partito sta tentando di ritrovare la strada dei primordi, è alla ricerca dell’urlo originario e... e... significativo! Per questo siamo disorientati dalla sua vocina momentaneamente anonima, stridula e triviale. Credimi: sotto c’è un ribollir di tini, per così dire, inaudito”.
“Aumm aumm?” ho gridato.
“Ehi, ma che ti gridi... Fuori di sarcasmo: sta attuando sforzi, il partito”.
“Attuando sforzi”, ho ripetuto con voce normalizzata.
“Nel senso di una rifondazione, sulla linea di una rivisitazione e ridefinizione, in vista di...” si è interrotto stanchissimo De Topis e si è appoggiato coi gomiti sul davanzale della finestra che dava sulla strada piena di odori. “In vista di riacquistare la propria configurazione di...” Gli odori dei nostri fratelli, e le loro voci, e i rumori prodotti da ogni oggetto creato dai nostri fratelli “… partito forte, quasi tellurico!”
De Topis è venuto a sedermisi di fronte. Ha detto: “Hai visto quanti valori giù in strada?”
Da questo punto di vista, ora sono un bijou. Però sono un disastro di sintassi.
“Be’, non farmele girare, adesso!” mi ha apostrofato De Topis, di ritorno dall’Elba.
Ha gonfiato le gote per mimare acqua in bocca.
“Cara?” gli ho chiesto goffamente con l’acqua in bocca.
“Figurati. Da spellarti fino all’osso”.
Ho girato e rigirato i pollici aspettando qualcosa. Forse che mi infilasse di soppiatto in un cassetto o in una cartella un quadernino riempito durante il soggiorno all’isola. Aumm aumm.
“Io... ho preso una decisione...” faccio.
“Sarebbe?”
“Rispedisco il vademecum, le agende e tutto quanto al mittente. Io non ce la faccio a... Il partito è ormai geroglifico...”
“Tu mi fai girar, tu mi fai girar”, ha canticchiato De Topis, “come fossi una bambola...”
Mi ha buttato un braccio intorno al collo: “Ti ricordi? Ti ricordi?” Aveva gli occhi rossi. Ho spostato la sigaretta.
“Certo”, gli ho risposto. “È per questo che ho preso la decisione di liberarmi del vademecum. È incomprensibile, illeggibile, e, forse, anche irriciclabile”.
Continuavo ad aspettare un segno. Un quadernetto.
De Topis si è alzato in piedi e facendo un giretto per la stanza ha intonato una delle sue prese di posizione in bilico sopra una stanchezza infinita:
“Io ti capisco. Fai. Però sappi che forse stai prendendo un abbaglio enorme. Il fatto è questo, vedi: il partito è così perché si sta rigenerando, capisci? Il partito è l’araba fenice”. Aumm aumm. “Voglio dire che il partito sta tentando di ritrovare la strada dei primordi, è alla ricerca dell’urlo originario e... e... significativo! Per questo siamo disorientati dalla sua vocina momentaneamente anonima, stridula e triviale. Credimi: sotto c’è un ribollir di tini, per così dire, inaudito”.
“Aumm aumm?” ho gridato.
“Ehi, ma che ti gridi... Fuori di sarcasmo: sta attuando sforzi, il partito”.
“Attuando sforzi”, ho ripetuto con voce normalizzata.
“Nel senso di una rifondazione, sulla linea di una rivisitazione e ridefinizione, in vista di...” si è interrotto stanchissimo De Topis e si è appoggiato coi gomiti sul davanzale della finestra che dava sulla strada piena di odori. “In vista di riacquistare la propria configurazione di...” Gli odori dei nostri fratelli, e le loro voci, e i rumori prodotti da ogni oggetto creato dai nostri fratelli “… partito forte, quasi tellurico!”
De Topis è venuto a sedermisi di fronte. Ha detto: “Hai visto quanti valori giù in strada?”
“Il partito è innominabile. Vaga apollineo nell’Elicona, contornandosi di belle donne. Il partito è un essere alato e ha perciò diritto alla temporanea follia. Il partito è poesia. Deve solo rispondere al cuore, e a nient’altro. Sgorbi e ghirigori suggeriti dalle anime de li mortacci di Breton prendono due facciate del quadernetto. A capo.
“Il partito si inebria di nettare; gliene se rapprende un sacco sulla bocca, e ogni tanto ne perde particelle, che dalle labbra piovono giù giù giù”. Trovato nella buca delle lettere.
De Topis è stato espulso – e privato del “De” – in quanto infame. In realtà soffre di un qualche esaurimento. Sentiva le voci.
Cerco e trovo la compagnia di Dorando, anziano uomo di partito, pensionando.
Ve lo presento.
Saluta, Dorando!
“Il partito si inebria di nettare; gliene se rapprende un sacco sulla bocca, e ogni tanto ne perde particelle, che dalle labbra piovono giù giù giù”. Trovato nella buca delle lettere.
De Topis è stato espulso – e privato del “De” – in quanto infame. In realtà soffre di un qualche esaurimento. Sentiva le voci.
Cerco e trovo la compagnia di Dorando, anziano uomo di partito, pensionando.
Ve lo presento.
Saluta, Dorando!
“Buondì, sono Dorando”.
E poi?
“Non sto mai con le mani in mano, trovo sempre qualcosa da fare”.
Da quanto tempo?
“Da quarant’anni”.
E poi?
“Poi vado in pensione”.
Avrai una forte liquidazione?
“Sì, e se resisto altri cinque anni, sarà fortissima”.
Hai fatto la guerra, dunque, Dorando?
“Sì”.
Quanti ne hai fatti fuori?
“Nessuno”.
Mentre ora ne faresti fuori...
“Quasi tutti”.
Perché?
“Perché non si rimboccano le maniche”.
Resterà nel tempo un ricordo di te, Dorando?
“Come?”
Ho detto: credi in Dio, Dorando?
“No”.
Nonostante i nostri spazi e tempi collaterali?
E poi?
“Non sto mai con le mani in mano, trovo sempre qualcosa da fare”.
Da quanto tempo?
“Da quarant’anni”.
E poi?
“Poi vado in pensione”.
Avrai una forte liquidazione?
“Sì, e se resisto altri cinque anni, sarà fortissima”.
Hai fatto la guerra, dunque, Dorando?
“Sì”.
Quanti ne hai fatti fuori?
“Nessuno”.
Mentre ora ne faresti fuori...
“Quasi tutti”.
Perché?
“Perché non si rimboccano le maniche”.
Resterà nel tempo un ricordo di te, Dorando?
“Come?”
Ho detto: credi in Dio, Dorando?
“No”.
Nonostante i nostri spazi e tempi collaterali?
“Come?”
Voglio dire: che cosa ti hanno insegnato le riunioni del nostro Rotary?
“Ahi ohi”.
Che c’è? Qualcosa che non va? Ti senti poco bene?
“La schiena, l’artrosi...”
È cervicale, Dorando?
“Per forza!”
Vai in malattia Dorando?
“Vedremo”.
Hai altro da aggiungere, nel caso non ci vedessimo per qualche tempo?
“Sì. C’è pressapochismo e ingiustizia a questo mondo”.
Perché, secondo te?
“Bisogna sapersi rimboccare le maniche. C’è sempre qualcosa da fare in questo mondo qui”.
Dorando. Ti sei mai chiesto perché in tutti questi anni ti ho sempre dato ragione?
“Tu sei della razza mia, per fortuna. Scusa se te lo dico solo adesso, ma mi sono affezionato a te”.
Anch’io, Dorando, perché tu mi hai fatto capire una cosa: che ognuno può avere la propria opinione. Deve, talvolta.
C’è questa voce, da qualche parte, magari dietro una scrivania, sopra qualche sedia, chissà dove... c’è questa voce occulta che ripete:
“Chiudete la porta, santo Dio! Chiudete la porta quando uscite. Fa corrente, volano via le carte, vola via tutto quanto, ci buschiamo un raffreddore, un malanno... La volete chiudere, quella porta? È mai possibile che non riusciate a capire che le porte si devono chiudere? Quando si entra e quando si esce, che diamine!”
Tutti noi – compatti, ora – ci chiediamo se questa sia la sua mansione specifica. Perché c’è un gran viavai, qui. La gente entra ed esce in continuazione, e nella maggior parte dei casi non chiude la porta. È giusto ed educato chiudere la porta quando la si apre avendola originariamente trovata chiusa. La voce ha un’alta coscienza di questo principio. Non è un caso che spesso al suo grido aggiunga, abbassando il tono: “È una questione di civiltà, insomma”.
Voglio dire: che cosa ti hanno insegnato le riunioni del nostro Rotary?
“Ahi ohi”.
Che c’è? Qualcosa che non va? Ti senti poco bene?
“La schiena, l’artrosi...”
È cervicale, Dorando?
“Per forza!”
Vai in malattia Dorando?
“Vedremo”.
Hai altro da aggiungere, nel caso non ci vedessimo per qualche tempo?
“Sì. C’è pressapochismo e ingiustizia a questo mondo”.
Perché, secondo te?
“Bisogna sapersi rimboccare le maniche. C’è sempre qualcosa da fare in questo mondo qui”.
Dorando. Ti sei mai chiesto perché in tutti questi anni ti ho sempre dato ragione?
“Tu sei della razza mia, per fortuna. Scusa se te lo dico solo adesso, ma mi sono affezionato a te”.
Anch’io, Dorando, perché tu mi hai fatto capire una cosa: che ognuno può avere la propria opinione. Deve, talvolta.
C’è questa voce, da qualche parte, magari dietro una scrivania, sopra qualche sedia, chissà dove... c’è questa voce occulta che ripete:
“Chiudete la porta, santo Dio! Chiudete la porta quando uscite. Fa corrente, volano via le carte, vola via tutto quanto, ci buschiamo un raffreddore, un malanno... La volete chiudere, quella porta? È mai possibile che non riusciate a capire che le porte si devono chiudere? Quando si entra e quando si esce, che diamine!”
Tutti noi – compatti, ora – ci chiediamo se questa sia la sua mansione specifica. Perché c’è un gran viavai, qui. La gente entra ed esce in continuazione, e nella maggior parte dei casi non chiude la porta. È giusto ed educato chiudere la porta quando la si apre avendola originariamente trovata chiusa. La voce ha un’alta coscienza di questo principio. Non è un caso che spesso al suo grido aggiunga, abbassando il tono: “È una questione di civiltà, insomma”.
Tutti uniti, ora, ci chiediamo qualunquisticamente se questa voce venga pagata – e quanto – per l’adempimento del suo compito.
Un bel giorno, anzi, tirando fuori il Torquemada che c’è in noi, convochiamo il partito. Ci disponiamo in cerchio, radunati come una vittoriosa posse, a braccia conserte, intorno al partito, che abbiamo schiaffato sopra una sedia. Gli chiediamo con un certo tono una spiegazione su questa voce che grida di chiudere la porta e, pare, non faccia altro.
Il partito chiede che gli venga ripetuta la domanda. Noi sbuffiamo e picchiamo il muro col palmo della mano, e tuttavia gli ripetiamo la domanda, con un certo tono, molto meno conciliante del precedente. Il partito fa schioccare la lingua e si mette a guardare fuori dalla finestra il suo paesaggio da rebus: due are romane sotto un pero, miseri caseggiati, le rive di una delle due Dore, bambini che giocano a pallone tra le pozze, una militare che riparte salutando la sua bella alla fine della licenza; una vecchia dall’aria epica cerca di infilare il filo nella cruna, ma non ci riesce. Anche noi osserviamo quella scena insieme al partito. Scopriamo che il nipotino aiuta la vecchia, infila la cruna, la vecchia felice gli stampa un bacio in fronte, il bimbo si pulisce col dorso della mano, la vecchia si ricrede nel quadretto che serve alla versione stereoscopica del rebus. Vediamo ancora: orti devastati dalle talpe, padri di famiglia che attendono al gioco della morra al tavolino di un’osteria, passa una splendida giovane dal collo imperlato e si unisce a loro; e pescatori che stendono al sole le loro reti, una rada, due rade, tre rade. Una vecchia legge la regola, casamenti popolari e cala il tramonto.
Il partito si asciuga le lacrime, domandando scusa. Che facciamo? Lo scusiamo? Sì, certo, perché ha usato il preservativo.
“Ne siamo sicuri?”
Certo. Non si nota lo strato di malinconia sul suo viso? Esso non manca mai di formarsi dopo la sensazione di aver perduto un’occasione unica.
Il partito riprende fiato. Le sue domande successive sono: “Avete voluto fare i provocatori? Intendete perseverare?”
Noi replichiamo con indignazione: “Provocatori? Ma che c’entra la provocazione?”
Il partito si protende tutto, dice: “Okay, okay, non serve che vi scaldiate. Era per domandare, semplicemente per domandare”. Il partito si alza dalla sua sedia, si fa aiutare a infilarsi il cappotto e lascia frettolosamente la stanza – chiamato all’inderogabile.
Una voce urla: “Gesummio! E chiudetela quella porta quando uscite! C’è una corrente da stecchire una statua e voi lasciate la porta aperta. Chiudete la porta! La volete capire? Sennò, che cosa le fanno a fare, le porte?”
Il partito torna sui suoi passi, visibilmente imbarazzato. Dice: “Scusate”, e si allontana più in fretta, chiudendo dietro di sé la porta.
Un bel giorno, anzi, tirando fuori il Torquemada che c’è in noi, convochiamo il partito. Ci disponiamo in cerchio, radunati come una vittoriosa posse, a braccia conserte, intorno al partito, che abbiamo schiaffato sopra una sedia. Gli chiediamo con un certo tono una spiegazione su questa voce che grida di chiudere la porta e, pare, non faccia altro.
Il partito chiede che gli venga ripetuta la domanda. Noi sbuffiamo e picchiamo il muro col palmo della mano, e tuttavia gli ripetiamo la domanda, con un certo tono, molto meno conciliante del precedente. Il partito fa schioccare la lingua e si mette a guardare fuori dalla finestra il suo paesaggio da rebus: due are romane sotto un pero, miseri caseggiati, le rive di una delle due Dore, bambini che giocano a pallone tra le pozze, una militare che riparte salutando la sua bella alla fine della licenza; una vecchia dall’aria epica cerca di infilare il filo nella cruna, ma non ci riesce. Anche noi osserviamo quella scena insieme al partito. Scopriamo che il nipotino aiuta la vecchia, infila la cruna, la vecchia felice gli stampa un bacio in fronte, il bimbo si pulisce col dorso della mano, la vecchia si ricrede nel quadretto che serve alla versione stereoscopica del rebus. Vediamo ancora: orti devastati dalle talpe, padri di famiglia che attendono al gioco della morra al tavolino di un’osteria, passa una splendida giovane dal collo imperlato e si unisce a loro; e pescatori che stendono al sole le loro reti, una rada, due rade, tre rade. Una vecchia legge la regola, casamenti popolari e cala il tramonto.
Il partito si asciuga le lacrime, domandando scusa. Che facciamo? Lo scusiamo? Sì, certo, perché ha usato il preservativo.
“Ne siamo sicuri?”
Certo. Non si nota lo strato di malinconia sul suo viso? Esso non manca mai di formarsi dopo la sensazione di aver perduto un’occasione unica.
Il partito riprende fiato. Le sue domande successive sono: “Avete voluto fare i provocatori? Intendete perseverare?”
Noi replichiamo con indignazione: “Provocatori? Ma che c’entra la provocazione?”
Il partito si protende tutto, dice: “Okay, okay, non serve che vi scaldiate. Era per domandare, semplicemente per domandare”. Il partito si alza dalla sua sedia, si fa aiutare a infilarsi il cappotto e lascia frettolosamente la stanza – chiamato all’inderogabile.
Una voce urla: “Gesummio! E chiudetela quella porta quando uscite! C’è una corrente da stecchire una statua e voi lasciate la porta aperta. Chiudete la porta! La volete capire? Sennò, che cosa le fanno a fare, le porte?”
Il partito torna sui suoi passi, visibilmente imbarazzato. Dice: “Scusate”, e si allontana più in fretta, chiudendo dietro di sé la porta.
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