Il podestà-daimyo Ta-mei Frenzō, su quantomai appropriato sfondo viola, fa intendere a gialle lettere che il clan Daspo non è (molto) più grande delle sue paure e dei suoi rancori. |
Condensando illegalmente fra esordio ed esposizione (quasi a dire: fra il capo e il collo): sette secoli grosso modo (fra cui lo sciocchissimo XVII) navigati sotto i ponti gettati tra banco e banco ad agevolare l’ansioso itinerario terrestre dell’erratico vuoto, la Lingua quasi immutata e il vuoto non tendendo a colmarsi, riabilitato un bel mucchio di toschi rubelli che ebbero i papi, tutto parendo, insomma, nel Paese immaginato volgere alla rotta compresa fra quella di Laputa e l’altra di Caporetto, l’approdo fu viceversa all’evento più notevole registrato in tutta questa lunga longa (si provi a esperirla in prima persona! e poi ci si saprà dire), per massima parte inutile spanna di tempo: il Bandito Concorso a capigoverno locale.
I posti (ci ripetiamo) erano due. (Ah, perché chiedilo a nonno! – per modo di dire). L’uomo, affrontandolo con un sorriso e con un canarino suggeritore, si avvantaggiò d’uno. Il secondo (che dice nonno?) fu appannaggio d’un concorrente minore incapace di dare noia. Per ciò stesso costituiva una iattura. Benché non recepisse stipendi o emolumenti d’altra sorta. La iattura non tardò a tramutarsi in avvisaglia di catastrofe quando questo strambo prese a molestare il condivisore di potestà comunale seguendolo ovunque e in ogni tempo. Le sue intenzioni erano buie. Le sue azioni stentavano a realizzarsi. Non era passibile di intervento restrittivo di quell’attitudine fosca. Si escluse (per scongiurare violazione di questa o quella clausola dell’ampia Carta de’ Diritti Umani) la sua denunzia giudiziaria. Ogni volontà non poteva. La cittadinanza rivendicava cose. La rivendicazione ruotava su perno annoso: l’annoso primato della democrazia. Come la democrazia incidesse su se stessa pungolo i diritti (sempre rivendicati, anche se non Umani) che ne reggevano il peso, chi lo sapeva. Il podestà primo isolò inquadrandolo con freddezza allegra il fenomeno.
Riunì l’assemblea di governo. Impose la dichiarazione di stato di catastrofe. Il voto la sancì unanime. La catastrofe non era cornuta. Né offriva altre protuberanze per cui essere afferrata. La città rimase astratta. I cittadini sfogliavano l’organo di stampa inaugurato in nome della catastrofe. Il quale con reticenza infingeva novelle. Il loro sapore era stantio. Nulla invero metteva a giorno nulla. Gli sviluppi essendo troppo inviluppati. Il notiziere in carta fu soppresso – quando, vagliato, risultò incontestabile il suo vizio di forma: esso si scriveva da sé. Come, chi lo sapeva. Non soffrirono conseguenze patetiche quanti avevano contribuito alla sua fondazione e diffusione. I quanti non venendo fatti accomodare per istrada ma iscritti ad un albo. Bianco.
L'assemblea di governo assiste, con sorriso più grande delle sue paure e dei nostri rancori, alla dichiarazione di stato di catastrofe. |
La catastrofe dilagava. Nella persona dello strambo e nella sua ombra-minaccia ombra dell’ombra dell’uomo che affrontava le catastrofi con un sorriso.
Che vediamo un po’: il suo sorriso aveva un che di, anzi era irreversibilmente netto, breve-lampo, retrattile. (Questo, se i nostri occhi non sono un’opinione). Lampeggiante. S’accendeva e si spegneva, da parerne immotivata o esagerata oppure sopra le righe sotto le rughe, o, ancora, uno scialo, l’alternanza. (Questo, se l’ENEL non è un’opinione). Era un’arma, bianca – se vi piace – ma propria. Di lui. Dopo l’archibuso, il raggio della morte e l’ifix-tcen-tcen, la più temibile – si assicura – conosciuta dal mondo e dalla sua triste storiA (con quella conclusiva desolante inappellabile A maiuscola da Impero alla fine del ballo del qua-qua), per più di un verso simile a quella di Stefano Pelloni.
Ma sul far d’una sera, mentre rincasando traversava i ponti vecchi affaticati benché lì a sopportare il Passatore vuoto, e col favore delle ombre, se quel lampeggiare cessasse, magari questo lo saprete voi – o, ancora, nonno. A quanto ci torna, e se l’ipotesi non è una tesi, non è improbabile, proprio allora, signori nostri, che il lume di quel sorriso, rischiarando l’emittente come arma di difesa, si smorzasse. Iattura, e non inedita. Perché il molestatore doveva essere appiattato in un qualche dove. Camuffato da un qualche qualcosa. Forse. Senz’altro. Altroché – dovette pensare non smentibile il podestà uno. Percepì sibili e suspiria, aliti, altri suoni di inquietudine e spavento, minacce tangibili dai tarli insiti nella mente sua, che, evàsine, dovettero aver esplorato l’aere tosco. Gli interstizi, le intercapedini del vespro che andava superandosi verso la notte. Il rapporto presentato dai tarli non sottintendeva. Il capoGiglio ebbe un fremito. S’attestò al limitare del ponte. (Uno dei – ma sempre Vecchio, da sempre, vecchio nato – appunto). Mise bocca al sorriso, ritratto, che – senza voto del pur (appunto) inutile consesso governativo dell’Ente locale – deliberò estrarre dal “qui si parrà la tua nobilitate”-fodero nel vano testa, applicandolo alla faccia illustrata di nevi – senza silenziatore, tutt’altro, ché all’inseguitore (o stolcher, in italiano) bisognava mettergli la fifa negra in brache anzi che la situazione si risolvesse nell’effetto inverso (od opposto o contrario) – in guisa Bond o Dorellik o “l’uomo invisibile diventa visibile”, sicché urge cambio strategia, e trasfigurossi tutto: quel volto Bellincione proiettò occhiate a tresessanta, a, individuandolo, stanare il potenziale assassino.
Qui, nell’abituale – di più: fanatica – osservanza del particolare canone, un urlo lacerò la notte (era sera, ma non importa: importa il rispetto del bistrattato canone; ma magari meglio “squarciò”?...).
Nessuno saprà mai dire se quell’urlo fu l’effetto o la causa di quello che avvenne o forse non avvenne, ma potrebbe avvenire – e anche non. Ma in un recesso… della... notte... Ma sì, della notte.
Improvvisa la procella intestina.
La corsa difficile, goffa eppure agile al più prossimo punto pubblico utile.
Il sorriso: tagliato netto, chiusura-lampo, retrattile.
“Dove scusi...”
“Là”.
“Grazie. Gimme 5”.
“S’ciaff!”
Il ninja Hirōtoro Torogirō (del clan dei Daspo), armato di pistola-compressore spegnisorriso atmosfere letali, era rimasto in attesa, nascosto nel pozzo nero della latrina, per 3 giorni e una sera. Quella.
Se la sua missione ebbe un successo (almeno parziale), lo saprete voi – mica noi.
Lordo, lo era ormai a sufficienza. Non fu quello il problema conseguente allo sparo d’aria che, centrato il nero occhio di toro, risalì le pareti viscide e impestate della burella connessavi fino a recapitarsi in inteso obiettivo.
Il guaio fu che il daimyo Ta-mei Frenzō, malgrado l’urlo che lacerò o squarciò la notte (ma in precedenza, o magari in contemporanea, le pareti del licet), prima di lasciare il locale di primo soccorso, nel riproporre al barista “Gimme 5”, contraccambiato con un invidiabile “S’ciaff!” forza cymbalo Slingerland in mano a tuo cugino, sciorinò, come panni in Arno, integro il sorriso (netto, nervo, scatto serramanico, e dunque retrattile) con cui affrontava le catastrofi.
Ma in quell’istante un urlo squarciò la notte. Sempre se la notte non è un’opinione.
Il ninja Daspo, camuffato da sua (di lui) sorella, si addestra nelle giovenali arti marziali con quel campione di nonno (tuo). |
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