Corsi e ricorsi della storia semo noi
(e voi siete ’na cozza grande)
Ancora, circa l’orrenda fine dell’Impero (o Regno – dopo i giorni del Governo in Esilio), vorremmo soffermarci su un curioso reperto video (e audio) risalente agli anni più dolorosi, in particolare quello della Rivelazione (ricorderete che l’allora Capitale capitolante fu colta e scossa di sorpresa – si diede a intendere nella furiosa concitazione del momento; tuttavia non si vollero riconoscere i prodromi della prossima disgregazione. Ciò, tipicamente, avvenne troppo tardi).
Il sogno della cozza (Illustrazione di Stefano Baratti) |
La coppia “interna” aveva per nome rispettivamente Uther (spiegò: “Mamma e papà vollero omaggiare il pastore Martin Luther King, restando al di qua dello sfacciato esibizionismo; ecco il motivo della mutilazione”) e Diablo Sputafuoco. Nome e cognome autentici, sottolineò, e poi soprallineò che mamma e papà erano gente alla buona. (Voleva essere una furba quanto immotivata stoccata al collega – che sorrise fra il cereo e il terreo a dissimulare la bitchy resting face femminea).
La compagnia, dunque, per decisione statutaria della donna-anfitrione, “dibatteva” o “discuteva” intorno a un argomento all’apparenza vuoto, destituito di senso comune (come lo intendiamo noi, per carità) e specialmente (abbiamo potuto e dovuto constatare dopo molteplici disamine del “video” imprigionato nella fitta ragnatela del tempo) ispirato al o dal principio di contraddizione. Ci rendiamo conto che l’affermazione è ostica, oltre che rischiosa, pertanto cercheremo di spiegarci al meglio delle nostre capacità.
In quei giorni, il Regno o Impero (si è sopra accennato), quasi che la storia fosse incline – umile rivista d’avanspettacolo – a dar repliche (sappiamo che non è così), era traversato da profondi sconvolgimenti (inizialmente dati per sotterranei), vi risuonavano largamente annunzi di una fine imminente o quantomeno incombente mica per ischerzo, con i cosiddetti barbari stavolta non alle porte, bensì saldamente radicati, incredibilmente rintanati nell’humus di quella società da, all’incirca, un sessantennio – forse abbondante (che oggi ci può parere un lampo, ma non è così). Essa, di primo sguardo sorretta da un anelito d’amore, si reggeva, se osservata da occhi sfoderati di prosciutto e annusata con narici non ottuse da polverine magiche, su una controversa dinamica, o, in altri termini, si fondava su una rara, smaccata, appassionata da sembrare innocente forma di quello che oggi, senza falsi pudori, denominiamo “internossismo” cui aderivano con allegria gli universi o quasi.
Per evitare il plagio, anziché sottolineare vogliamo qui evidenziare la caratteristica principe (per altro oggetto delle sinceramente finte lagne di que’ cavalieri del tavolo rotondo con seggiolino per il moschettiere esterno) di quel fantastico mondo, dove tutto, ruotando invero su se stesso, è diretto dal motore immobile primo variamente denominato: paccaspallismo, gomitammiccamento, duspaghismo o macaronismo (e culinarismi vari), ossia quel procedimento metodico, quel sistema a doppie, triple, quadruple, quintuple ecc. fino a onniple alla enneple, in grazia del quale aristidi e narcisi montano effimeramente in tolda spintivi, oltre che da (culinari) calci al culo, dalla convinzione che la proprietà eterna della città possa transitarsi tranquillamente su di loro.
Ma per non divagare esageratamente: l’elemento che spicca per contraddittorietà nel reperto visionato è l’oggetto della discussione, consistente, all’ingrosso, nella domanda (ideata personalmente dalla giornalista): “Ma davvero nel nostro Regno è necessario godere di appoggi, conoscenze altolocate, ammanigliamenti, calci al – passatemi il termine – sederino, per diventare persone (o personaggi) in vista?”
Luther non poteva essere d’accordo che sì, pur avanzando con un linguaggio assai complesso talune riserve (di riserva). Dello stesso parere si disse lo Sputafuoco. Incuriositi da tanta e ardita (dati i tempi e i costumi) controtendenza e successivamente indagando su altri reperti d’epoca, abbiamo trovato che lo Spitfire al tempo (si parla di un pugno di giorni innanzi) era fresco reduce da un rituale primitivo, vale a dire la “presentazione” (cercheremo di sviluppare in altra occasione anche questo concetto astruso) di un suo romanzo di poche pagine e meno senso, evento “partecipato” (dirimiamo subito: in quei tempi e in quei costumi questo verbo si poteva far tranquillamente transitare – pressappoco come l’eterno dell’urbe condita aglio, oglio, stanglio ad libitumque) da rappresentanti d’ogni consorteria mondana della caput di quell’Impero in putrefazione: schiere di giornalisti, scrittori, giornalisti-scrittori, giornaliste, scrittoresse di trilogie, triadi e tribadismi, figure in vista, figure nascoste, figure malcelate, figurine e figuracce; uomini chiunqui con donne qualunqui, finanzieri, finanziere, tardi manager prêt-à-manger, preti dei Prati, capibastone d’ogni fazione, attori e attore di fikcion-fuk-cion, esperti di comunikk-kekcion e di sti-kak-cion, ce n’era per tutti, abbiamo scoperto: e se non ce ne fosse stato, lì per lì (=2601) si distribuivano predicati come fossero ostie-lido: un “dottò” non si nega a nessuno, nemmeno a un primario di una clinica inchiestata. E (quasi) infine, uno o due, ma soprattutto un “cantautore” (altro concetto obsoleto: ma ci si dia un’infarinatura) vichiano, inventore della tesi filosofica secondo la quale la storia saremmo noi. Peccato davvero che non avesse chiarito chi fossimo noi. Oggi, anche grazie al nostro prezioso reperto, lo sappiamo.
Ecco la storia, infine, quella con non senza l’esse maiuscola, e il resto delle lettere mancanti: un mucchietto di popolani, arruolati nelle barracks e condotti in corriera al luogo del meeting, una libreria con 12 soppalchi e 3 parterre: biglietto pagato e buono mensa, eccoli lì, seduti par terre, in attesa del pax tecum di Sputafuoco: quella dedica personalizzata, seppure illeggibile (“Eh eh, me fa male er braccio e puro er gommito, ehh eh”) in frontespizio, che se fanno tanto de caccialli dalle barracks gnente gnente ja’a sbattono in muso a quarcuno.
Circa l’Uther, pardòn (la elle lo fa ’ncazzà), gli parlavano sopra, non s’è potuto – sinora – approfondire il carattere.
Quanto invece al personaggio in “collegamento”, vi confessiamo di aver faticato non poco ad afferrarne il pensiero nella sua articolata totalità. È del resto vero che si esprimeva in un linguaggio stranito, irto di “appunto” (ma lui non appuntava mica: tutto a braccio andava, tutto a braccio, manco un mezzo gobbo da fregargli la schiena, che così lo drizzava), schierati nell’area del fumetto che li conteneva ma che stentava a trattenere parole che tu dici umane, simili a cavalli di Frisia, a limitare i confini delle sue brachilogiche espressioni, quasi uguali a frasi, che si bloccavano con frenata improvvisa subito dopo soggetto e predicato, forse predicato e soggetto, magari anche soltanto oggetto, cosa, come un filosofo di Lagado con il suo carico di altrimenti indicibile. Appunto.
E il suo nome era F-Athos Morganos, all’apparenza un’illusione, un miraggio, ma simile a un moschettiere novecentesco; la voce roca e temibile, di uno che fa sul serio, i capelli artatamente screziati di tinture zebresche, e già che c’era informò d’aver anche lui scritto un libro, di soggetto vibratamente confuso (di titolo non ricordato o duro da strappare alla punta della lingua) – oggi, dopo la caduta della decadenza alla fine dell’Impero, diremmo “vacuo” –, forse, probabilmente incentrato su un non-concetto, quello di una inedita solitudine esistenziale, dovuta alla perdita dei vecchi compagnoni F-Ethos, F-Portos, F-Aramis, F-D’Artagnan.
Ma l’esistenziale, vuoi anche improbabilmente plagiato da Dumas, è carta infallibile a far breccia nel cuore dei viandanti perduti, e il libro (questo, in particolare) una letale arma di propaganda. Costui, come a parlare di un’illusione, di un miraggio (di se stesso, a se stesso), come in controtendenza ai controtendenti, sosteneva che “secondo me” (in ciò era indubbiamente un Galileo mancato – ma per un misero soffio) “conta quello che uno fa e vuole” (in ciò, invece, un mostro bicipite: Emerson e Schopenhauer incompleti, ma determinati a completarsi).
Cadde soltanto su una banale e faziosa domanda della anfitriona – per altro di ordine politico. Fu il suo spirito ribelle e anarcoide a fargli rispondere: “Non ho votato alle due ultime legislazioni” quando ella gli chiese birichina: “Per chi vota lei?”
La brigata – si esamini pure il nostro reperto, noi siamo qui a disposizione – s’intrattenne allegra per 35 minuti, dando l’idea di star impartendo una dura lezione al viandante smarrito, insieme a una sonora bastonata al principio di non contraddizione. Resta poco da aggiungere, ma d’un certo interesse storico.
In fumo nel fumo del tempo, dimenticati da tutto (consideriamo che dimenticare richiede qualche impegno e un minimo di attenzione a ciò che si dimentica: non vorremmo finire col contraddirci), ma non da tutti. Quella notte, il 6 dicembre di due secoli fa (197 anni, per la precisione), San Nicolò di Myra (detto anche di Bari) omise la sosta presso le abitazioni di Uther, Diablo Sputafuoco e F-Athos Morganos.
La maledizione vige ancora per i loro discendenti.
ah Maure', facce er cattivo!
RispondiEliminacerto che non votare ad una, o addirittura due, legislazioni non è cosa facile....... ma c'è chi ci riesce, ed ha tutta la mia invidia! Sono cose che non accadevano ai miei tempi, mi fanno sentire tutto il peso dei miei anni........
RispondiEliminaGià, i miei tempi.... che poi, a ben guardare, "i tempi non sono mai stati miei. Li ho condivisi, come tutti, con un numero quasi incalcolabile di teste di cazzo. Forse quei tempi erano più loro che miei. Ma comunque....."